sabato 20 luglio 2013

Breve racconto estivo #1

Una vecchia ape arancione su tre ruote sfrecciò lungo la strada sconnessa che costeggiava il ristorante. Sul cassone, insieme a qualche scatolone sistemato ordinatamente, sedeva un ragazzino grassottello dalla carnagione scurissima, abbronzata da ore sotto al sole. Aveva una maglietta verde militare maculata e teneva le mani premute sulla bocca, e gli occhi serrati in modo innaturale carichi di tensione – come se stesse pregando di arrivare salvo a destinazione.
Sul marciapiede davanti al ristorante un uomo anziano, al contrario, camminava lentamente – quasi conservasse le energie che il caldo consumava in fretta – scrutando le immediate vicinanze con due occhi celesti luminosi come il cielo terso che lo sovrastava. Una piccola bottiglia di plastica blu da mezzo litro semivuota, appoggiata su un mobile di legno con vetro semicircolare, di quelli che si usano per tenere il pesce in bella vista, attirò la sua attenzione. Contrariato da quell’immagine, forse al suo sguardo stonava con il mobile e anche con il muro giallo sbiadito, si fermò e la afferrò con una velocità sorprendente se paragonata all’andamento claudicante che aveva sfoggiato fino a quel momento. Con un movimento altrettanto veloce la lanciò verso un secchio quadrato distante un paio di metri, facendo centro al primo colpo. Lo sguardo soddisfatto e ammiccante che lanciò verso il cameriere, che aveva seguito tutta la scena immobile sulla soglia con le mani dietro la schiena, e adesso contraccambiava con una smorfia quasi identica, dimostrava che l’anziano non era nuovo a questi piccoli sprazzi di vitalità inaspettati.
Di tutto questo Anna non si era curata, o forse non si era proprio accorta talmente era concentrata sul vuoto che la lacerava interiormente. Si era appena seduta a tavola con padre e fratello. Aveva lunghi capelli scuri mossi, legati senza un ordine preciso, e quattro o cinque trecce rasta le pendevano sulla spalla destra. Carnagione scura di natura, aveva un viso dai lineamenti dolci – nonostante l’espressione funerea – e due splendide labbra carnose con piercing di lato. Di orecchini ne aveva anche uno al naso e diversi su entrambe le orecchie; un paio di ciondoli con filo di cuoio legati al collo e una canottiera bianca con disegno indecifrabile sul quale si stagliava la scritta: ‘Pretty’.
Era diversa da suo fratello, più curato nel vestiario e con la faccia pulita e priva di ninnoli. Era diversa e basta, e non ne faceva mistero. Sedeva alla destra del padre e lo disprezzava, neanche di questo faceva mistero. Immobile, mentre il cameriere sistemava la tovaglia e apparecchiava la tavola, l’unico fugace abbozzo di sorriso le illuminò il volto quando incrociò lo sguardo di un cane disteso accanto al tavolo vicino. Ma fu troppo fulmineo per essere notato, e si perse nel nulla dei discorsi provenienti dagli altri tavoli che facevano da colonna sonora indefinita di quel momento – che lei aveva già dimenticato prima ancora di averlo vissuto, o così avrebbe voluto. Teneva il menù tra le mani appoggiato sul tavolo, con l’espressione di chi potrebbe piangere da un momento all’altro, tanto che il fratello non riuscì a resistere:
«E’ davvero così triste? Se vuoi cambiamo ristorante»
«Alici e gamberi rossi crudi, e basta», pronunciò la frase guardandolo dritto negli occhi, facendogli intendere che non era il caso di avventurarsi in battute inutili. In realtà Michele, così si chiamava il fratello, avrebbe voluto solo migliorare un po’ il suo umore. Si sarebbe accontentato della metà di quel sorriso lampo dedicato al cane. Le voleva bene, e quella tristezza ostentata come un vestito elegante lo feriva, lo spaventava.
«Sei sicura di non volere altro? Mi sembra un po’ poco, di questo passo sparirai», sentenziò il padre senza rivolgerle lo sguardo.
«Da quando in qua ti interessa quello che mangio?», lei invece lo guardava, come lo stesse sfidando.
«Da quando sei nata. Tua madre non sarebbe felice»
«Si direbbe non fosse troppo allegra neanche prima, altrimenti non si sarebbe buttata dal quarto piano».
Pronunciò la frase con rabbia, senza un filo di tristezza negli occhi. Voleva fargli male, vederlo sanguinare, riempire ogni poro di quel corpo con lo stesso senso di colpa che provava lei, come se il dolore che già lo consumava non fosse abbastanza.
Dopo quella morte improvvisa e inaspettata, si era concentrato sul lavoro. Restava in azienda più del necessario, cercando di accumulare impegni, caricandosi anche quelli che non gli spettavano. Tutto per passare meno tempo possibile in casa, per non affrontare discorsi con i figli. E il pranzo domenicale era un’altra scusa per restare fuori da quelle mura dense di ricordi – dove ora aleggiava anche l’ombra del tradimento - di certo non un’occasione per cercare un dialogo con chi ancora gli rimaneva accanto e aveva bisogno di un appiglio a cui aggrapparsi. Non aveva capito niente, neanche il minimo sentore dell’imminente tragedia, e questo lo devastava a tal punto da non riuscire a parlarne con nessuno. Rimase impassibile. Non alterò un muscolo facciale, né gli comparve una luce diversa negli occhi, e neanche un pensiero di rivalsa gli attraversò il cervello.
Il silenzio cadde su di loro come una fitta nebbia marina che attutiva anche i rumorosi discorsi provenienti dagli altri tavoli. I tre uniti dal vincolo famigliare e dalla tragedia, non erano mai stati così lontani. Lo squillo del telefono di Anna dissolse di colpo la nebbia, almeno la sua. Guardò il display illuminato e così si fece il suo viso: era lui, l’unico che dava ancora un briciolo di senso alla sua esistenza.
«Ciao!»
«Ciao, dove sei?»
«A pranzo in città, tu?»
«Io ancora lontano, non credo che riuscirò a scendere prima di un mese. Mi hanno allungato il turno»
«Ma avevi detto che saresti arrivato entro due giorni»
«Non dipende da me lo sai, e poi ho bisogno di soldi»
«Ora non posso parlare, ti chiamo dopo?»
«No, ti chiamo io appena posso».
La linea le cadde addosso come un pesante macigno. La luce del display si spense e così il suo viso. Neanche l’ultimo sguardo scambiato col cane le strappò un sorriso.
L’uomo anziano passò di nuovo davanti al ristorante ma nella direzione opposta, mantenendo sempre la stessa lenta andatura claudicante. Non c’erano bottiglie ad attirare la sua attenzione, e i suoi occhi celesti non scrutavano più le immediate vicinanze. Guardava dritto davanti a se, perso in chissà quali ricordi ormai lontani.






martedì 2 luglio 2013

News

Oggi su LUnità esce un mio racconto inedito, e non dite che non vi tengo informati. (In realtà è uno dei primi pezzi del blog, ma vederlo su un quotidiano fa un certo effetto).