venerdì 4 novembre 2011

New York/Charleston prima parte

In questo preciso momento mi trovo su un volo nazionale americano diretto a Charleston, città dove si celebrerà il matrimonio di mia nipote Eva, motivo del viaggio negli Stati Uniti. L’aereo è davvero piccolo e stretto. L’unica robustissima hostess presente ha non poche difficoltà di movimento, e nonostante sfoderi grandi sorrisi di circostanza, si vede che sotto sotto non gradisce il velivolo assegnatole. Non lo gradisco nemmeno io, ma è un altro discorso che non ha niente a che vedere con le difficoltà di movimento (del resto io non mi muovo). Si tratta della mia atavica paura di volare, che ormai conosco così bene da non avere quasi più paura. Un tempo, alla vista di un aereo così piccolo, sarei stato capace di rifiutarmi di salire a bordo inscenando improvvisi quanto drammatici malori da premio Oscar della tragedia. Ora semplicemente ignoro la paura, faccio finta di non averne, e devo dire che mi riesce bene (ovviamente non quanto i finti malori). Ma facciamo un passo indietro. Sono arrivato tre giorni fa a New York con un volo Alitalia. L’assistenza aeroportuale è ormai perfetta, l’assegnazione dei posti no, anche perché quelli dove le mie lunghe gambe sarebbero a loro agio sono gli unici vietati a un disabile. Per motivi di sicurezza infatti, non posso sedere vicino alle porte dell’aereo, in caso di evacuazione intralcerei il passaggio. Questo presuppone che io e il mio assistente, in caso di evacuazione – invece di lanciarci fuori più veloci della luce -, ce ne staremmo belli comodi e rilassati aspettando il completo svuotamento dell’aereo: due imbecilli. Il volo è stato quindi molto scomodo, ma tranquillo dal punto di vista della mia paura: non ho davvero avuto motivi per averne, neanche a cercarli con pignoleria.
Una bellissima novità è la possibilità di vivere decollo e atterraggio in video grazie a telecamere posizionate a dovere. L’atterraggio in particolare sono riuscito a viverlo con meno angoscia del solito, proprio grazie alla distrazione visiva culminata in una scenetta da sit com: alla fine del tratto di pista percorso per arrivare al punto di parcheggio dell’aereo, sempre ripreso dal vivo, un omone nero con dietro una parete di mattoni rossi lo ha guidato con le classiche lampade segnaletiche rosse, andando perfettamente a tempo con la musica che in quel momento suonava all’interno. Finendo l’improvvisato balletto alzando lentamente entrambe le braccia verso l’alto, fino a incrociare le due lampade sopra la testa, e ridendo da solo mentre usciva di scena (probabilmente consapevole della spietata inquadratura).
L’assistenza americana non è ancora all’altezza. Come al solito, dopo aver visto sfilare tutti i passeggeri, sono rimasto da solo in attesa degli addetti. Dopo alcuni minuti è apparso un funzionario che mi ha chiesto:
«Può camminare?»
«Ovviamente no».
Il funzionamento del cervello umano a volte è davvero misterioso. Se avessi potuto camminare, non sarei rimasto mezz’ora sull’aereo completamente vuoto. Sarebbe stato un comportamento psicologicamente instabile. Ma è proprio quando si crede di aver raggiunto l’assurdo, il surreale, che arriva la richiesta che rompe tutte le barriere dell’immaginario:
«Neanche piano piano, se la aiutiamo noi?»
«...».
E allora preferisco non rispondere, e aspetto l’arrivo della mini carrozzina da aereo guardando il nulla fuori dal finestrino. Che immancabilmente arriva (la carrozzina, non il nulla), guidata da un ragazzo accompagnato da una signora attempata che non fa neanche il gesto di aiutare, si tiene a debita distanza. Proprio non possono accettare il fatto che qualcuno, non solo non sia in grado di camminare, ma non riesca nemmeno a trasferirsi autonomamente dal sedile dell’aereo alla mini carrozzina. Un evento più unico che raro. Per fortuna viaggio con il mio caro amico Miky, mio ex assistente, che sa bene come gestirmi. Grazie al suo prezioso aiuto, arrivo illeso al recupero della mia amata (...) sedia a rotelle.

I tre giorni a New York sono stati fantastici, soprattutto per gli incredibili incontri: qualche giorno prima di partire ho scoperto che Simone, il mio migliore amico che vive a Delhi, sarebbe passato nella grande mela insieme alla moglie Jenny, nel mio stesso periodo. Il fatto che io e Simone abbiamo vissuto insieme a NY per più di un anno, tra il ’92 e il ’93, rende l’incontro ancora più speciale. Se ci aggiungiamo anche che Jenny viveva a NY nel nostro stesso periodo, a poche centinaia di metri dal nostro appartamento; frequentava gli stessi locali dove andavamo noi, e che nonostante questo, non ci siamo mai visti, diventa surreale (come le domande del tipo sull’aereo: tutto quadra). Abbiamo trovato una città nuova, cambiata in ogni suo aspetto – come già ho raccontato in un precedente post – ma sempre affascinante. Tanto che dopo due giorni, siamo arrivati a pianificare un futuro ritorno a viverci. Ho incontrato anche Luca, un altro caro amico che vive qui da una ventina d’anni. Mi ha portato subito a Zuccotti Park, il posto occupato dagli ‘indignados’ americani. Vicino Wall St. e davanti a Ground Zero. Chi conosce un minimo gli stati uniti, sa quanto sia strano assistere a un’occupazione con tende, cucina, libreria, gruppi elettrogeni per fronteggiare il freddo incombente, tamburi che suonano durante il giorno, discorsi e gruppi di discussione dalla mattina alla sera. Insomma una mobilitazione sapientemente organizzata, con l’aiuto di ogni genere di donazione: da quella economica a quella culinaria, dai libri alla costituzione di un giornale ironicamente chiamato: The occupied wall street journal. Mi ha colpito molto il modo che hanno trovato per amplificare discorsi e annunci. Visto che per questioni di disturbo della quiete pubblica non è possibile abusare di impianti stereo o urlare dentro megafoni, usano un curioso metodo: la persona che espone il suo discorso, lo fa pronunciando una frase alla volta che viene ripetuta a voce alta da tutta la gente che ascolta. Una specie di eco-megafono naturale, molto democratico.
La tre giorni new yorkese è, purtroppo, filata via velocemente, condita da uno sfrenato shopping favorito dal vantaggioso cambio euro-dollaro, e dall’altrettanto sfrenato abuso di cibo: malese, marocchino, giapponese e, naturalmente, americano. Overdose di hot dog ai baracchini su strada e hamburgers vari. E’ stato bellissimo tornare al Lucky Strike, un bar-ristorante che negli anni ’90 era l’unico posto dove si poteva mangiare fino a tarda notte. Ogni volta che ritorno a NY, ho la sensazione di essere a casa. Mi sta balenando in mente l’idea di venirci a stare due mesi in primavera e magari, in un prossimo futuro, trasferirmi di nuovo in pianta stabile. La città è cambiata molto, anche in peggio da alcuni punti di vista, ma anche gli abitanti sono cambiati, e in meglio. Ho trovato un’umanità nuova, una voglia di socializzare e di condividere che non è mai stata una loro caratteristica, semmai il contrario.

Charleston è una città turistica piena di negozi e bar di ogni tipo, con le sue costruzioni tipiche del sud degli States. Case basse, coloniali con la classica veranda fuori dell’ingresso. Storicamente importante perché culla dello scoppio della guerra civile. E’ anche una città universitaria piena di giovani, pronti a fare festa tutte le sere, e un’ambita meta per la celebrazione di matrimoni. La mia famiglia si è spostata in massa proprio per questo: il matrimonio di mia nipote Eva. Nonostante le ansie pre partenze di mia sorella Roberta, che cerca in tutti i modi di farti provare in egual misura, e il favoloso mondo in cui vive mia madre, fatto di articolate quanto inesistenti preoccupazioni e sistematica perdita di oggetti della quale incolpa tutti (per poi scoprire di averli ordinatamente riposti in cassetti troppo visibili per essere presi in considerazione), siamo riusciti a non implodere. Anzi, il matrimonio ha agito da collante per ritrovarsi tutti insieme, fatto assai raro. Che questa reunion avvenga a Charleston in South Carolina, è un dettaglio marginale e al contempo surreale (d'altronde è il light motif di questa vacanza). Ma andiamo per gradi.
La stanza accessibile del Francis Marion Hotel dove alloggio, è tutto meno che accessibile: la moquette rende difficile qualsiasi spostamento; il letto è così alto, che anche una persona normale avrebbe bisogno di un’attrezzatura da scalatore per raggiungerlo; il lavandino del bagno ha due rubinetti impossibili da aprire; la doccia, oltre a avere una porta di vetro con scalino, ha il getto fisso attaccato al muro e non quello mobile standard. Siamo costretti a usare un secchio per lavarmi le gambe, i piedi e il sedere (tirandogli secchiate d’acqua dal basso verso l’alto). Insomma, una stanza da percorso di giochi senza frontiere.
Il matrimonio super americano si sviluppa in tre giorni. A me sembrano già infiniti i nostrani, questo mi spaventa. La prima sera ci ritroviamo tutti al secondo piano di un bar, con bellissima balconata e free drinks. Manca la sposa, che dopo le fatiche organizzative e l’ovvio accumulo di stress, si è presa un giorno di riposo. Oppure sta già recitando da protagonista il film del suo matrimonio. D’altra parte, come insegna Moretti:«Mi si nota di più se non ci sono». La serata risulta essere molto piacevole. La lunga schiera di fratelli della madre della sposa, ci accoglie amorevolmente. I due fratellastri di mia nipote, ormai cresciuti (l’ultima volta che li ho visti erano bambini), sono fantastici: Jack vuole fare il regista e già lavora con il padre; Miles fa il musicista-cantautore, e oltre a essere bravo, è anche bello come il sole. Anche se praticamente non ci conosciamo, si mostrano molto affettuosi. Anche Tim, il papà, si comporta come se ci fossimo visti il giorno prima. E non sono comportamenti di circostanza, me ne accorgerei. Arriva Kyle, lo sposo, che ho conosciuto a Roma mesi fa. E’ un ragazzo intelligente e simpatico. Ci accomuna l’amore per il calcio: io da appassionato, e lui da ex calciatore professionista. Giocherebbe ancora, ma ha un problema di fragilità ossea e per questo ha dovuto smettere. Ora fa il commentatore sportivo per la tv americana Fox. Faccio amicizia con alcuni suoi amici e con parte della sua famiglia. L’alcol gratuito comincia a fare effetto e i giovani invitati iniziano a lanciarsi in sconclusionate danze, che sfociano in sfide di improvvisata breakdance (che fa molto america). Al momento di lasciare la festa per rientrare in albergo, vengo intercettato da Kyle che mi propone un’altra bevuta veloce. Con un gruppo di suoi amici, Tim, Jack e Miles ci trasferiamo nel bar di fronte, dove finiamo di ubriacarci a dovere. Rientrando in albergo incrocio una marea di giovani travestiti e truccati nei modi più impossibili. Non è l’alto tasso alcolico a farmeli vedere, ci sono davvero. E’ il week end che coincide con la festa di Halloween, e qui la prendono alquanto seriamente. Non posso fare a meno di notare che sono tutti vestiti molto leggeri, estivi. Non fa freddo, ma non è neanche più estate. Io, con maglioncino, pantalone di velluto e tasso alcolico fuori norma, sono al limite della sopportazione. Ne deduco che: o sono tutti più ubriachi di me (opzione più che realistica), oppure si tratta di una presa di posizione netta contro l’inevitabile arrivo del freddo, una specie di esorcismo contro la cattiva stagione. Accompagnato da questo dubbio cosmico, vado a preparare la cordata per conquistare la vetta del mio letto.
La mattina, in teoria, è in programma una caccia al tesoro; in pratica, non ci vado. Io e Miky ci svegliamo in tempo per saltarla a piè pari, cioè tardi. Con grande calma ci prepariamo, facciamo colazione a suon di muffins e caffè americano e ce ne andiamo in giro per negozi, in compagnia dei postumi della sbronza. La temperatura è scesa notevolmente e tira vento. Indosso una felpa di pile e un piumino mezze maniche acquistati a New York, mentre la gente continua con i pantaloncini e le magliettine. Non capisco, ho quasi voglia di fermare qualcuno e chiedergli perché non sente freddo. Incontriamo sorelle e madre di ritorno dalla caccia al tesoro, infreddolite (loro sì) e affamate. Ci infiliamo in un sushi-thai dove, nonostante la persistente nausea da hangover, ordino una zuppa tom gha khai che mi rimette al mondo. Altra peculiarità del posto, in linea con l’atteggiamento esorcistico contro il freddo, è la costante presenza di aria condizionata nei locali. Fa più freddo al chiuso che all’aperto. Forse hanno accumulato talmente tanto caldo in estate, che il corpo deve ancora smaltirne gli eccessi.
Alle 16.30 ci vengono a prendere davanti all’albergo con un tipico autobus del posto. Tutto di legno, dalla forma rettangolare e tipicamente inaccessibile. L’autista si scusa e ci aiuta a farmi salire a bordo. Arriviamo in una meravigliosa e enorme casa che si affaccia sui canali della laguna interna di Charleston, dove si tiene un «Oyster Toast»: un aperitivo-cena a base di ostriche e cibo cajun sudista. Gli sposi accompagnati dalla schiera di testimoni, amici e parenti, si presentano su due motoscafi che attraccano sul molo antistante la costruzione. Fa un freddo cane. Infatti la grande veranda si svuota presto. L’unico spazio praticabile è quello davanti al meraviglioso camino esterno. Il salone interno è enorme e pieno di tavoli. C’è uno spazio dedicato ai musicisti - con microfoni, chitarre e due grandi altoparlanti - e alle eventuali danze. Alla fine della cena (non scorderò mai le tortine di granchio calde) partono i discorsi di rito, introdotti dal padre dello sposo. La sua famiglia è originaria di Charleston, per questo il matrimonio si celebra qui. Mi perdo il primo, quello del migliore amico dello sposo – che mi dicono essere stato molto divertente -, perché ipnotizzato davanti al fuoco del camino esterno (i camini mi fanno questo effetto). Mi becco invece quelli dei due testimoni ufficiali: il fratello di Kyle e l’amica del cuore di Eva. Fossi rimasto davanti al camino, non avrei fatto un soldo di danno. Questo genere di discorsi, dove vengono esaltate le incredibili qualità delle persone, il loro essere perfetti e meravigliosi esseri umani, mi da il voltastomaco. Li trovo di una rara ipocrisia. Perché non essere sinceri? Non è possibile che tutte le coppie che si sposano siano composte da due creature meravigliose. Avranno anche loro dei difetti, dei lati oscuri, degli aneddoti di pura cattiveria. Sarebbe più divertente mischiare le due facce della medaglia, sempre in vena ironica. Io l’avrei fatto, e se mai mi dovessi sposare (evento improbabile), vorrei che il mio testimone lo facesse. Devo dire che il discorso completamente autoreferenziale del fratello mi ha fatto ridere. Ha parlato di se stesso, e bene, per l’ottanta per cento del tempo, a tratti auto commosso, fantastico! La serata è andata avanti a suon di musica. Molti amici e parenti hanno dedicato canzoni alla coppia. Tutti molto bravi tranne, ahimè, uno: Tim. Il patrigno della sposa ha cantato due canzoni: un pezzo di Dylan molto bello, che gli è venuto anche bene; e uno scritto appositamente per Eva, il giorno stesso.
Ecco, ci sono delle cose nella vita che non andrebbero mai fatte. Una di queste è comporre una canzone cinque ore prima di presentarla in pubblico, a maggior ragione se dedicata a qualcuno che ami. Nel novantanove percento dei casi, viene fuori una cagata. La musica è una cosa seria, non va violentata. Oltretutto si tratta di una tripla violenza: verso la musica, verso la persona per cui l’hai scritta e verso il pubblico che è costretto a sentirla. Testo da rabbrividire, esecuzione musicale da dimenticare, melodia non pervenuta. Potrei essere ancora più cattivo, ma per affetto mi fermo qui.
A serata finita ci siamo ritrovati democraticamente in fila al freddo in attesa del tipico autobus. Miles ci ha intrattenuto, chitarra in braccio, cantando le sue canzoni, e ha continuato sull’autobus per tutto il tragitto. Per un attimo mi è sembrato di essere negli anni ’70, con la mia famiglia fricchettona in giro per l’America. Non avrei potuto immaginare una conclusione migliore...