giovedì 22 settembre 2011

La Piscina

Rieccomi qua! Sono ancora vivo! Scusate la lunga assenza. Ho passato quasi tutto il mese di Agosto a risolvere un problema fisico e sono molto impegnato nel finire il mio romanzo. Cercherò di farmi sentire più spesso. Qualche mese fa ho scritto un racconto, spero vi piaccia. A presto!

In Texas fa caldo.
Un caldo soffocante, opprimente. La Chevy Malibu del ’75, acquistata per settecento dollari a Los Angeles, è l’equivalente di un forno a micro onde. Fa così caldo che ogni duecento miglia siamo costretti a fermarci per aggiungere acqua al radiatore, per evitare che esploda. Non siamo neanche tanto sicuri che riuscirà a riportarci a casa, a New York. Considerando quello che è costata, è già un miracolo che sia arrivata fino qui.
Simon, mio coinquilino e amico di una vita, è al posto di guida mentre io me ne sto sprofondato sul morbido sedile anteriore unico, con le gambe allungate e i piedi fuori dal finestrino, poggiati sullo specchietto retrovisore. Quasi a volermi riparare dalle folate di caldo che invadono l’abitacolo.
«Spero che ti si spiaccichi un bel calabrone sopra, cosi quei piedi puzzolenti li tiri dentro una volta per tutte»
«Mi mancava un pensiero carino stamattina. Se puzzano, meglio fuori che dentro no?».
Siamo partiti da una cittadina di cui ho già dimenticato il nome, dopo aver pernottato in un motel pieno di scarafaggi. Siamo diretti il più velocemente possibile fuori dal Texas e dal suo caldo infernale. Abbiamo già percorso duecento miglia su una statale in mezzo al deserto dove non passa un’auto, esattamente uguale a quelle che si vedono nei film; quelle in cui ti sembra di essere l’unico abitante della terra sopravvissuto dopo chissà quale disastro naturale; quelle che ti senti al sicuro perché sei solo, e soli si sta meglio.
Passiamo un cartello che indica la prossima città a cinquecento miglia. Improvvisamente la macchina inizia a sbandare. Simon la controlla e si accosta. Scendo e mi accorgo subito che abbiamo bucato. Restiamo un attimo fermi a guardare il danno:
«Visto che te ne sei stato comodo a non fare un cazzo fino adesso, la ruota la cambi tu»
«La notte con gli scarafaggi ti ha fatto bene all’umore. La ruota la cambiamo insieme, prendi il crick».
Mentre lui alza la macchina, io mi carico la ruota di scorta. Tolgo quella forata e cerco di infilarla. Quando abbiamo preso l’auto ci siamo assicurati che avesse una ruota di scorta, ma non siamo arrivati a controllare che fosse uguale alle altre. Infatti non lo è: a guardarla sembra identica, ma i buchi dove si infilano i perni sono diversi. Mi innervosisco subito:
«Cristo! Ecco perché costava così poco maledetti bastardi! E adesso?»
«E adesso non lo so!».
Ho sete. Infilo una mano dentro l’auto e prendo la tanichetta da quattro litri di plastica che usiamo per bere da quando siamo partiti, riempiendola a ogni sosta. Ci sono due dita d’acqua. E’ la prima volta che ci dimentichiamo di riempirla. La situazione è pessima: siamo in mezzo al deserto con la macchina bloccata per di più senz’acqua. Ne beviamo un sorso per uno. Forse proprio la situazione di alta emergenza ci fa concentrare per trovare una soluzione. Simon mi guarda con espressione corrucciata:
«Facciamo così Law, mentre io cerco di inventarmi qualcosa con la ruota, tu vai a dare un’occhiata al cartello che abbiamo passato. Magari ci è sfuggita un’indicazione per una località più vicina»
«Vado».
Senza discutere come siamo abituati a fare, mi incammino sotto il sole cocente. Non siamo soliti chiamarci per nome, quando succede vuol dire che c’è un problema da risolvere e si accende subito la catena di montaggio. L’affiatamento della nostra lunga amicizia si manifesta ed è tutto finalizzato alla risoluzione del problema. Il cartello indica che la città più vicina è San Antonio a cinquecento miglia, ma non dice se c’è qualcosa in mezzo. Ritorno alla macchina e trovo Simon che sta rimettendo a posto il crick. La ruota di scorta è montata.
«Ma come hai fatto?»
«Ho spezzato due perni e ce l’ho fatta entrare»
«Due su quattro? Non può reggere, alla prima buca si spezzano anche gli altri»
«Qui non possiamo restare. Non passa nessuno e siamo già disidratati, proviamoci andando piano piano. Ma il cartello?»
«Niente prima di cinquecento miglia»
«Magari troviamo una stazione di servizio, almeno il serbatio è pieno»
«Al limite ci beviamo un bel bicchiere di benzina».
Simon accenna una risata poco convinta, del resto c’è poco da ridere. Saliamo in macchina e ripartiamo. Viaggiamo a quindici miglia all’ora sul ciglio della strada. Mi sporgo in continuazione per controllare la ruota. Fa sempre più caldo e dopo due ore non abbiamo incrociato ne stazioni di servizio ne auto. Non ci siamo neanche rivolti la parola, forse per evitare di farci venire ancora più sete di quella che abbiamo. L’acqua è quasi finita. Mi sembra assurdo il fatto che in una nazione all’avanguardia come gli stati uniti, stia rischiando di morire di sete in mezzo al deserto. E’ un pensiero surreale e infatti mi viene da ridere, ma la realtà è che all’orizzonte vedo solo rocce e terra rossastra. Dopo un curvone interminabile in mezzo a un piccolo canyon, appare un’uscita con un cartello sporco di terra e consumato dal calore. A malapena si legge la scritta: Kingstown. Senza pensarci due volte Simon si infila nella piccola stradina, costeggiata su entrambi i lati da un costone di roccia rossa dolcemente levigata dal tempo. Mentre la percorriamo mi sporgo ancora dal finestrino per controllare la ruota. Un’enorme ombra mi copre per un attimo dal sole. Mi giro di scatto e alzo lo sguardo: un’aquila con le ali completamente aperte sta planando parallelamente alla macchina a una decina di metri d’altezza. Riesco a distinguere il collo bianco e il becco giallo:
«Simon guarda!»
«Cosa?»
«Una cazzo d’aquila!».
Simon si sporge verso il mio finestrino e si dimentica che sta guidando. Vedo la macchina sterzare e dirigersi verso il muro di roccia. Caccio un urlo disumano. Simon riprende il controllo, riesce a evitare l’mpatto e si ferma. Scendiamo all’unisono e vediamo il rapace riprendere quota e sparire dietro il costone:
«Non avevo mai visto un’aquila così da vicino»
«Neanch’io, infatti non l’ho vista»
«E meno male, se no ci saremmo schiantati contro il muro! Cammina, rientra in macchina e andiamo»
«Sei fortunato che almeno l’ho vista allontanarsi, non ti avrei mai creduto»
«Posso immaginare il poutpourri di insulti che mi sarei beccato, e invece...»
«Andiamo a vedere che ci riserva Kingstown, come inizio non c’è male».
Riprendiamo a percorrere la stradina che sembra non avere fine, anche per colpa della nostra lenta andatura. Mi chiedo se l’incontro ravvicinato col rapace nasconda qualche significato. Sicuramente nella cultura degli indiani d’America vorrà dire qualcosa, ci vorrebbe uno sciamano. Mi vengono in mente i libri di Castaneda: chissà cosa direbbe Don Juan. Dopo qualche minuto i costoni di roccia degradano fino a sparire. Come per incanto la visuale si allarga e lo spettacolo che si presenta ci lascia a bocca aperta.
Sulla sinistra c’è una piscina con tanto di trampolino, circondata da un giardino con prato all’inglese dove sorge anche una casetta di legno. Accanto alla piscina una grande costruzione che somiglia a un hangar aeroportuale. Dalla parte opposta della strada, una casa con antistante giardino e di seguito quello che assomiglia a un piccolo bar-emporio. La piscina e popolata di ragazzi adolescenti, ragazzini più piccoli e qualche donna. Ci guardiamo increduli non sapendo bene cosa fare. Il contrasto dal nulla del deserto delle ultime quattro ore a questo, è troppo forte e netto. Abbiamo bisogno di qualche minuto per elaborare la visione. Decidiamo di procedere per necessità: comprare acqua la prima. Parcheggiamo davanti all’emporio. Al mio ingresso vengo accolto da un signore di mezza età, capigliatura folta bianca e un paio di occhialetti tondi da vista. Non mostra grande sorpresa nel vedermi, nonostante sia accaldato e sporco di terra e nero di copertone:
«Salve»
«Salve, avete bottiglie d’acqua fredde?».
Mi indica un frigorifero a vetri pieno di bevande. Lo apro e prendo quattro bottiglie. Mi avvicino e le appoggio sul bancone.
«Abbiamo un problema alla macchina, mi saprebbe dire se c’è un meccanico nelle vicinanze?»
«Il meccanico abita qui accanto e quella è l’officina», con un sorrisetto ironico mi indica l’hangar accanto alla piscina. Lo fisso per qualche secondo indeciso se mi stia prendendo in giro. Lo nota:
«Qualcosa non va?»
«No no, mi scusi. Quanto le devo?»
«Sono due dollari e mezzo, e se vuole darsi una pulita qui fuori c’è un rubinetto con lavabo», sorride ancora.
«Grazie. Che lei sappia, il meccanico è in casa?»
«Si, vada pure a bussare non ci sono problemi»
«Grazie ancora, arrivederci»
«Buona giornata».
Esco dal negozio. Simon mi aspetta seduto sul cofano. La mia faccia deve essere tutto un programma. Se ne accorge:
«Che è successo?»
«Se te lo dico non ci credi»
«Dai spara»
«Questa è la casa del meccanico e quella l’officina», Simon mi guarda senza parlare «il tipo dentro mi ha detto che possiamo bussargli».
Ci beviamo quasi un‘intera bottiglia a testa e ci diamo una sciacquata nel lavabo. Sono le due e mezza di pomeriggio e il caldo è al suo apice. Entro nel giardino e busso alla porta. Mi apre il meccanico in tuta da lavoro. Ha i capelli castani e due baffoni scuri.
«Salve, mi dispiace disturbarla a quest’ora. Il proprietario del negozio qui accanto mi ha detto che potevo bussarle»
«Salve, nessun problema. Dimmi»
«Ho un guaio alla macchina. Montando la ruota di scorta ho rotto due perni...», non mi fa finire il discorso.
«Dammi dieci minuti, intanto porta la macchina davanti all’officina che gli do un’occhiata»
«Perfetto, grazie».
L’officina è enorme. Simon parcheggia sul montacarichi e Mike, questo è il nome del meccanico, solleva l’auto per lavorare comodo. Una volta resosi conto del danno ci dice quello che deve fare:
«Per aggiustarla ho bisogno dei perni. Il negozio che li vende è a un’ora e mezza da qui. Considerando il viaggio e il tempo che mi ci vorrà di lavoro, ne avrete per cinque ore»
«Per noi va bene»
«Potete tranquillamente aspettare in piscina, con questo caldo un bagno è quello che ci vuole»
«Davvero non è un problema, non vorremmo approfittare»
«State sereni, siete miei ospiti».
Ringrazio di cuore. Anche se dentro di me ho paura che il conto finale sarà salato. Tiriamo fuori pantaloncini e asciugamani dalle valigie e facciamo il nostro ingresso nella meravigliosa piscina. Ci accolgono due signore che evidentemente sono state avvertite da Mike mentre ci cambiavamo. Entrambe tondeggianti nei loro costumi interi a fiori, si presentano: sono Margareth e Giudy. Cordiali, disponibili e sorridenti. Personalmente sono sempre diffidente verso l’eccessiva cordialità, nasconde quasi sempre secondi fini. La città dove vivo ne è un esempio continuo: se a New York qualcuno si mostra troppo disponibile e accomodante, vuol dire che ti sta derubando. Al contrario, qui sembra faccia parte del loro dna. E’ genuina, non premeditata. Margareth ci fa da cicerone. La casetta di legno ospita gli spogliatoi e un piccolo bar con sandwich e bevande dissetanti i cui ricavi servono per la manutenzione della piscina. C’è anche un telefono che siamo liberi di usare se dobbiamo avvertire qualcuno. Lettini e sedie sono disseminati ovunque senza un ordine particolare:
«Potete mettervi dove volete. Rilassatevi e qualsiasi cosa vi serva, basta chiedere. Mike è un bravo meccanico, ma sui tempi non è molto affidabile».
In realtà io ho delle domande che mi frullano in testa, colgo la palla al balzo per fargliele:
«Scusi Margareth spero di non essere invadente, ma tutti questi ragazzi da dove arrivano? Non vedo case qui intorno, e da dove veniamo c’è solo deserto. E questa piscina?».
Margareth scoppia a ridere:
«La comunità di Kingstown è abbastanza grande. Le case ci sono, con tutto questo spazio perché costruirle attaccate? La piscina è stata un’idea per creare un punto di aggregazione per i giovani. E poi, ragazzo mio, il deserto nasconde mille sorprese, a volte i miraggi sono più concreti della realtà».
Pronunciate queste parole, Margareth si congeda con un’espressione soddisfatta. Io ripenso alla frase finale. Simon, cha ha ascoltato la conversazione già comodamente disteso su un lettino, spezza i miei pensieri:
«Enigmatica la signora eh?»
«Mica saremo già morti?»
«Si, e questo è il paradiso. Un po’ arido, ma decisamente comodo e accogliente. Invece di dire cazzate, vai a vedere che offre da mangiare il bar paradisiaco»
«In effetti per essere il paradiso, fa un caldo infernale. Se poi anche da morto mi tocca sentire le tue battute ironiche, allora sono davvero finito all’inferno»
«Purgatorio amico mio, e io sono la purga».
Ecco, appunto. Mi avvicino al bar, ma ho la sensazione di essere osservato. I bambini hanno fatto gruppo intorno a un tavolino. Non mi perdono di vista e confabulano a bassa voce. Se questo è l’inferno, loro sono i diavoletti e si stanno accordando su quali torture subirò. Al bar trovo Giudy:
«Affamato?»
«Direi di si, che c’è nel menu?»
«Hamburger, Hot Dog, Club Sandwich»
«Due hamburgers perfavore»
«Da bere?»
«Due lattine di coca cola»
«Perfetto, il tempo di preparare i panini».
Mentre aspetto mi cade l’occhio sul telefono. Se sono morto di certo non posso telefonare. Non si è mai sentito di uno che chiama dopo essere deceduto. Non è come quando ti arrestano, che hai diritto a una telefonata. Quando muori, muori. Punto e basta. Non hai diritto a un bel niente. Giudy è sparita in cucina. Mi guardo intorno e, oltre ai potenziali diavoletti, vedo un gruppo di ragazzi più grandi. Mi avvicino a una di loro:
«Ciao, è possibile usare il telefono?»
«Ciao, dipende da dove devi chiamare»
«Los Angeles?»
«Si, accomodati pure»
«Grazie!».
Allora sono vivo! Mi precipito all’apparecchio e digito il numero di mio fratello. Vive in California da anni. Il numero è libero ma non risponde nessuno, neanche la segreteria telefonica. Cosa abbastanza strana. Lui è un maniaco: quando ho preso casa a New York me l’ha fatta comprare sotto minaccia. A suo avviso è inaccettabile chiamare qualcuno e non ricevere risposta. Un brivido mi corre lungo la schiena. Provo subito a chiamare casa di mia madre. Mi risponde la segreteria. Quando arriva il momento di lasciare il messaggio, sento una serie di bip ravvicinati e cade la linea. Significa che la macchina è piena.
«Ma cos’è uno scherzo?»
«Hey che succede?», Giudy è sbucata dalla cucina con i panini in mano.
«No niente, non riesco a contattare nessuno»
«I panini sono caldi, puoi riprovare dopo»
«Certo, quanto le devo?»
«Cinque dollari»
«Solo?»
«E’ poco?»
«In città ci sono altri prezzi»
«Qui il cibo, soprattutto la carne costa poco».
Pago e prendo panini e bevande. Arrivo trafelato da Simon, che se ne sta sempre sdraiato sul lettino, e sbatto violentemente il piatto con il cibo a terra:
«Qui c’è qualcosa che non va!»
«Cibo di merda?»
«Ho provato a chiamare mio fratello e mia madre ma non rispondono»
«Vuol dire che non ci sono, che c’è di strano?»
«E non risponde neanche la segreteria»
«Rotta?»
«A tutti e due!?»
«Senti non so che paranoie ti stai facendo ma io ho fame».
Si avventa su un panino come un leone sulla preda. Il viso si rilassa in un’espressione di puro piacere. Spinge delicatamente il piatto nella mia direzione e mi fa segno di mangiare. Prendo in mano il panino. A guardarlo sembra perfetto: lattuga, pomodori, hamburger e salse in un mix di meravigliosi colori dentro un pane con sesamo leggermente tostato. Sarebbe da fotografare per quanto rappresenti lo stereotipo dell’hamburger americano. Gli do un morso che affonda dolcemente nella morbida carne cucinata al sangue. Le papille gustative impazziscono di piacere. Non so se dipenda dall’appetito, ma credo sia il più buon panino che abbia mai assaggiato. L’esperienza culinaria cancella momentaneamente le paranoie trascendentali. Mentre lo divoro con accanimento e totale dedizione, ho di nuovo la sensazione di essere osservato. Mi giro con il panino tra i denti. C’è un ragazzino in piedi davanti a me: ha i capelli biondi e mi guarda con i suoi occhioni azzurri spalancati. Mi viene subito in mente un film che da piccolo mi terrorizzava: ‘Il villaggio dei dannati’ di John Carpenter. Dove un gruppo di ragazzini biondi con gli occhi azzurri controllava le menti delle persone attraverso lo sguardo. Rimango pietrificato con il panino in bocca.
«E’ buono vero?»
«Ottimo direi»
«Giudy fa i panini più buoni del mondo! Ma tu di dove sei?»
«New York».
Al bambino brillano gli occhi in un misto di stupore e meraviglia. Quegli sguardi che solo a loro riescono; quelli che sfoderano davanti al regalo desiderato; quelli dettati dall’innocenza, dalla purezza di spirito, dalla sincerità; quelli che rimarresti li ad ammirare per ore e che hanno il potere di cambiare in bella anche la più buia giornata.
«New York...anch’io un giorno andrò a New York»
«Non ci sei mai stato?»
«No, magari. Sono stato qualche volta al camping dopo la scuola in tenda»
«Dove?»
«A Nord sui monti, è bellissimo!»
«E poi sempre qui?»
«Si, a Kingstown si sta veramente bene sai?».
«E che si fa a Kingstown?»
«Per esempio: le gare di tuffi. Io sono bravo»
«Allora facciamo così, finisco di mangiare e poi mi fai vedere»
«Ok!»
Il ragazzino si gira svelto per tornare dagli amici, ma ha un sussulto e torna sui suoi passi:
«Ma tu che ci sei venuto a fare qui?»
«A vedere come ti tuffi».
Scoppia a ridere e corre via. Sto iniziando a scoprire la realtà della provincia americana che non conosco. La semplicità della vita di un bambino il cui sogno nel cassetto è meravigliarsi di fronte alla città dei balocchi, che scoprirà non essere una chimera, mentre il passare del tempo viene scandito dagli schizzi d’acqua dei suoi tuffi e dal contatto con la natura nel campeggio con gli amici. Natura a cui probabilmente tornerà, dopo aver assaporato l’inutile delirio delle formiche impazzite che corrono senza meta tra tonnellate di cemento. Quel delirio che per chi ci è nato rappresenta la scontata normalità da cui forse vorrebbe fuggire. Alla fine dei conti, quasi invidio la sua esistenza. Lontana e pacifica, senza compromessi.
L’effetto del connubio panino meraviglioso-bambino curioso mi ha messo definitivamente di buon umore. Simon se ne accorge:
«Gara di tuffi eh?»
«Come si può non essere coinvolti da un bambino così»
«E la morte, il paradiso, il purgatorio?»
«E chi se ne frega, tanto se sono morto, sono morto cazzo. Almeno mi diverto!».
Intanto una selva di ragazzini con in testa il biondino, ha circondato il mio lettino:
«Siamo pronti!»
«Wow vi siete moltiplicati, quanti siete?»
«Dodici!»
«Come gli apostoli»
«Sì e tu sei Gesù Cristo», sibila Simon.
«Invece di sfottere, dammi una mano».
Mi alzo in piedi sul lettino e inizio lo show, con i piccoli che mi guardano a bocca aperta:
«Allora, la gara di tuffi è ufficialmente aperta e le regole sono queste: tre tuffi a testa. Il primo classico, di testa; il secondo un’acrobazia a piacere, una capriola, una piroetta, quello che volete voi; il terzo in freestyle ispirato a un animale, quello che vi piace di più! Io e Simon», mi giro e lo indico «questo è Simon, saremo i giudici. Ora dovete preparare venti pezzi di carta rettangolari che ci scriviamo i numeri per le votazioni! E servono anche un foglio e una penna»
«Ok!», gridano in coro e corrono in cerca della carta. Simon mi guarda esterefatto:
«L’hai già fatto o ti è venuto così?»
«Così all’impronta, ho improvvisato»
«A volte mi spaventi. E io che c’entro?»
«C’entri c’entri, mica si lasciano soli gli amici, soprattutto in mano a un’orda di bambini sovraeccitati. Questi mi sbranano».
La piscina ha preso vita. Quando siamo arrivati non volava una mosca, ora si sentono le grida dei bambini che stanno coinvolgendo anche le signore e i ragazzi un po’ più grandi, che finora ci avevano ignorato. Una volta preparati i foglietti per le votazioni (da 1 a 10) e la lista dei partecipanti, io e Simon ci sediamo sul bordo con i piedi a mollo, mentre l’orda si mette in fila dietro al trampolino. Uno a uno sfilano, mano mano che chiamiamo i nomi, e si esibiscono al loro meglio. Nei tuffi di testa più o meno si equivalgono a parte due: Tommy, il biondino, che è davvero bravo e Michael, un bambino cicciottello con i capelli ricci castani, che è meraviglioso nella sua goffagine. Ci dimostriamo essere giudici buoni e oscilliamo tra il cinque (Michael) e il nove (Tommy). Nei tuffi acrobatici iniziano le prime risate. Tra pseudo capriole e piroette finite in dolorose facciate nell’acqua, fioccano i tre. Si divertono tutti, soprattutto i bambini che hanno capito lo spirito goliardico della competizione. Tommy ci stupisce con una capriola degna di un tuffatore professionista, e rimedia un altro nove. Michael ci intenerisce con un tentativo di capriola condita da uno scivolone sul trampolino e si becca un benevolo cinque. Dal comportamento degli altri, capisco che è il più deriso. Il classico bambino che subisce la sua condizione di inferiorità, elevata all’ennesima potenza dagli atteggiamenti dei suoi coetanei. Non amo le ingiustizie, non le ho mai amate. Esce dall’acqua e mi passa vicino a testa bassa.
«Sei stato bravo! Adesso fammi vedere che sai fare imitando un animale, forza!».
Abbozza un timido sorriso e si dirige verso il trampolino. Mentre ci prepariamo a dare il via all’ultima manche, si avvicina Giudy:
«Se vuoi puoi riprovare a chiamare»
«Grazie ma non importa, non devo avvertire nessuno»
«Grazie a te per quello che stai facendo, era tanto che non si divertivano così»
«Anch’io Giudy, te lo assicuro».
Mio padre era morto da poco tempo. Anche se cercavo di non pensarci, il dolore della sua scomparsa mi accompagnava costantemente, come la mia ombra sul terreno. Un dolore lancinante con cui avrei convissuto per anni.
I tuffi animaleschi sono la vera attrazione della gara. Non vedevo l’ora di arrivarci. Le imitazioni si susseguono incessanti: il puma, il ragno del deserto (più simile a una rana), il serpente a sonagli, l’avvoltoio, l’aquila, il coyote, il bisonte, lo scorpione. Arriva il turno di Michael che annuncia il suo: l’armadillo.
Lo guardo concentrarsi, prendere la rincorsa e balzare dal trampolino tutto rannicchiato in un tuffo a bomba che, visto l’abbondante peso, alza una muraglia d’acqua che ci investe come uno tsunami. Quando riemerge si volta verso di noi, zuppi, in attesa del verdetto:
«E questo sarebbe l’armadillo?»
«Si, quando si chiude per difendersi e diventa una palla».
Io e Simon ci guardiamo e scoppiamo in una fragorosa risata. Punteggio: due dieci con applauso. Tutta la piscina ride e applaude. Michael è paonazzo di vergogna ma felice. Alza le braccia in segno di vittoria. Alla fine il vincitore della gara è Tommy, ma grazie all’armadillo, Michael si piazza al terzo posto. Ci buttiamo tutti in acqua nel delirio generale. In realtà hanno vinto tutti, e l’hanno capito anche i partecipanti, e forse il piccolo cicciottello d’ora in poi avrà più fiducia in se stesso, almeno lo spero. Nel frattempo è tornato Mike che ci chiama perché la macchina è pronta. Ci asciughiamo e lo raggiungiamo nell’officina. I due perni mancanti sono di nuovo al loro posto. Per di più ha aggiustato la ruota forata. Non è riuscito a trovarne un’altra uguale, ci consiglia di farlo quando arriveremo nella prima grande città. E’ il momento di pagare e mi aspetto la batosta:
«Quanto ti dobbiamo?»
«Venti dollari sono troppi?».
Lo guardo sconcertato. Ero pronto a sborsare duecento dollari con grande naturalezza. Sarebbe stato anche un prezzo vantaggioso. Prendo il portafogli e gli metto in mano cento dollari. Adesso è lui a mostrare sorpresa:
«Non posso accettare, sono troppi»
Gli prendo la mano e la chiudo con i soldi dentro:
«Senti Mike, forse non hai capito ma ci hai salvato la vita. Dopo tutto il lavoro e la splendida giornata che ci hai fatto passare, questo è il minimo insindacabile. Grazie, davvero».
Torniamo in piscina a prendere le nostre cose e a salutare prima di rimetterci in marcia. Margareth e Giudy ci baciano e ci augurano buon viaggio. I ragazzi ci ringraziano e ci pregano di tornare a trovarli. Sto per rientrare nell’officina quando mi sento tirare la maglietta. Mi giro e davanti a me c’è Michael che alza le braccia. Mi inginocchio alla sua altezza e mi abbraccia forte senza dire una parola, per poi scappare via verso gli altri ragazzi. Scappo anch’io prima di commuovermi. Passiamo davanti alla piscina e li troviamo schierati dietro la rete per l’ultimo saluto. Imbocchiamo la strada per rientrare nella satale, mentre le possenti rocce che la costeggiano nascondono la piscina, l’hangar, la casa e il bar. E’ quasi il tramonto e l’aria si fa più fresca. Sono nella stessa posizione di quando siamo arrivati, con i piedi appoggiati sullo specchietto retrovisore. La tanica dell’acqua è piena. Lancio un’occhiata furtiva in alto in cerca dell’aquila, che non c’è. Senza staccare gli occhi dalla strada, Simon rompe il silenzio:
«Lo sai che se torniamo indietro non c’è più niente?»
«E’ probabile, ma non ha importanza. A volte un miraggio è più concreto della realtà».