giovedì 26 maggio 2011

''La febbra''...

Eccomi qua! Sono le 2.25 e ho 39.1 di febbre!
Così per mettere le cose in chiaro subito.
Gli amici che mi seguono sanno bene che mi piace scrivere quando sono nel delirio febbrile. Non perdo occasione per farlo. Oggi però non sto delirando. Mi trema decisamente la mano, ma credo di essere abbastanza lucio. Magari lo penso e basta. Questo si vedrà alla fine, intanto ho deciso di non effettuare correzioni. Vi beccate gli eventuali errori.
Rischio di essere monotono ma sto andando a fuoco cazzo! Utn caldo atroce. Vorrei accendere l'aria condizionsta ma la polmonite mi aspetta a braccia aperte. Perchè il fresco mi riassa e mi addormento, e mi risveglio che sono divetato un cubetyo di ghiaccio.
E mi auto o dell'ombecille, per poi ricascarci dopo mezz'ora. Un genio.
Sto riflettendo sulla morte.
Mica la mia. Quell dei membri della mia famiglia, di alcuni membri, di uno...mia madre. Non so se sia un rigurgito del fatto che in questo periodo è troppo presente. Me la ritrovo intorno in continuazione. Scrivere diventa un utopia (guardate l'ota e le condizioni in cui lo sto facwendo). (ota e facwendo: che meraviglia!). Quindi mi immagino il ritrovamento del cadvere, il dolore, il macello in famiglia. Parenti e amici affranti. Nessuna battaglia sui soldi per fortuna, assenti all'appello. I discorsi in chiesa. Purtroppo si, chiesa. E' credente. Un po' in tutto in realtà. Nel calderone della sua spiritualità cìè spazio per yutti. Dio, la Madonna, Buddha, Sai Baba, Padre Pio, Madre Teresa e pure Quelo (per essere sicuri). Ma non ci perdonerebbe il funerale in un posto che non sia la chiesa. Pensavo a questa che abbiamo nella via di casa, ma a occhio e croce è troppo piccola. Lei ha tanti amici e li vuole tutti a disperarsi per la sua prematura scomparsa. Qualsiasi età abbia raggiunto quanso capiterà il lieto, ups no, triste tristissimo evento.
Si muovomo le parole, come fluttuassero nel mare (si fluttua nel mare?). Il coefferalgan sta facendo effetto. La coseina che ha nella composizione più che altro. In effetti, ora che ci penso, sto un po' fatto.
Sono stato cinque minuti a combattere per aprire una bottigietta d'acqua da mezzo litro, bere e richiuderla senza fradiciare il letto. Ci sono riuscito, ma lo sforzo mi ha fatto rivenire sete. Quando un cane si morde la coda...
Fa caldo e mi bruciao gli occhi. Fa caldo come nel libro di Marquez che ho letto ieri: ''Storia delle mie puttane tristi''. Consigliatomi da Martina (avevo scritto Nartina, ho corretto. Ma è l'unica volta giuro...). Un caldo dove il corpo addormentato della giovane Degaldina suda e si bagna, mentre il vecchio protagonista l'asciuga e le racconta tutto quello che sa, con la dedizione di cui solo il vero amore è dotato. Un amore che vorrei provare anch'io, che non so se ho mai provato. Ora non ricordo.
La scrittura ha cambiato colore, è diventata azzurra. Mi debo preoccupare?
Un bell'azzurro intenso. Non è che nia madre si offende quando leggerà questo post? Mica cvoglio che muoia, mi sembra chiaro. Dicono che se sogni la morte di qualcuno gli allunghi la vita, io ho immaginato/sognato rtutto il funerale. Dovremmo essere coperti da disgrazie. Gli avrò allungato la vita a morte (aha non ho resistito). Ci metterà nella bara a tutti. Adieumonamis!

giovedì 19 maggio 2011

Comparse

Con questa poesia ho partecipato alla terza edizione dell'evento ''Pensieri in Arte''. Un abbraccio Giovanna!



La ragione rincorre emozioni e sentimenti,
dimensioni parallele mai unite
come musiche dissonanti su spartiti armonici

Cammino in precario equilibrio
sul filo che mi tiene in vita,
sospeso fra nuvole dense di pensieri

Mi divido
Mi moltiplico

In una vita che mi appartiene a tratti
in un mondo di cui conosco i confini,
tra una prigione colorata
e un montacarichi che sale dritto all'inferno.

Non trovo pace ne soddisfazione,
pur scaltro e loquace che sia,
in questo diffidente tempo,
maligno avversario sotto molteplici forme
insolenti, insensibili, false.

Mi sottraggo

Al quieto vivere affido poche righe,
e da toro infuriato affronto le mie vite
in mano a sconosciute comparse,
dimenticate ancor prima di apparire.

Anonime entità in anonime vesti
con anonimi trascorsi,
si intrecciano soli i nostri percorsi
senza alternative,
col coraggio di mentire per sopravvivere.

lunedì 16 maggio 2011

Pioggia.
Una pioggia insistente, tenace, convinta come la mia voglia di non esserci.
Di essere altrove. Al di là di un recinto, di uno steccato, di un muro.
Al di là di un confine, di un arcobaleno, di un cielo denso di nubi.
Al di là di un sogno.
Già i sogni, quei mondi confusi di immagini, sensazioni, simboli. Creati dai ricordi ammassati alla rinfusa nel ripostiglio del mio intimo teatro. Che premono per uscire e farsi ammirare anche per un solo attimo. Quei sogni carichi d’ansia, d’incertezza, dove sono vittima di soprusi e schiavitù. Quelli dove sono al servizio di un malvagio, dove combatto e rischio di essere ucciso. Dove fuggo da un pericolo che non conosco. Quelli da cui mi voglio liberare, e succede che invece di svegliarmi, viengo catapultato in un altro sogno che somiglia alla realtà e mi confonde. Quelli dove scopro la bellezza, dove mi ritrovo a volare su una foresta dai colori autunnali, dove qualcuno che ho appena incontrato mi sorride e mi dice di essere contento che io sia ancora vivo.
E poi al risveglio, i pensieri di quei sogni mi fanno compagnia. Cerco una spiegazione, un motivo, una ragione che non trovo mai. Forse perché non voglio trovarla, o forse perché non esiste. Come non esiste il mondo che ho costruito, se non nel mio intimo teatro.
E allora sento qualcosa bruciare nello stomaco. Ho voglia di fuggire, di correre, di vivere realtà diverse. Ho voglia di toccare con mano tutto ciò che esiste davvero. Ho voglia di imparare tutto quello posso. Ho voglia di intraprendere un lungo viaggio, di vivere un’avventura. E ho voglia di incontrare quel sorriso, per sentirmi vivo.

martedì 10 maggio 2011

Ieri sera sono stato al teatro Ambra Jovinelli per assistere al concerto del mio amico Niccolò Fabi. Un concerto che si preannunciava molto particolare perché eseguito da solista, senza l’appoggio della band. Si è sempre titubanti quando si tratta di questo tipo di concerti. Non è facile tenere la giusta tensione per tutta la durata della performance, molto spesso si sente la mancanza degli altri strumenti e, inevitabilmente, si cade nella noia. Il teatro è colmo di gente e il fatto che a esibirsi sia una persona a cui voglio bene, mi incute un po’ di paura. Non voglio vedere volti delusi o annoiati, mi farebbe male. Al contrario, risulterà essere uno di quei concerti che rimangono saldati nell’anima e nel cuore per sempre; quelli che quando ci ripensi, si ripresentano vividi con immagini, colori, profumi, sogni, volti, sorrisi, lacrime, gesti come se non avessero mai fine. Ma andiamo per gradi.
Arrivo al teatro in compagnia di Giulia (amica/sorella) e incontriamo subito Shirin (amica quasi sorella), la compagna di Niccolò, scintillante nel suo meraviglioso outfit di paillettes. Mi consegna il pass e si dilegua presa dai mille impegni pre concerto. Ci uniamo al resto del nutrito gruppo di amici presenti e, dopo un aperitivo a base di campari e biscottini salati al peperoncino – in realtà somigliano ai croccantini dei miei cani, infatti li mangio solo io – entriamo in teatro. I posti sono tutti vicini dietro l’ultima fila su una sorta di palchetto rialzato, vicino all’entrata. In questo caso sono il fortunato possessore di una ‘poltrona mobile’, quindi si presume che possa stare un po’ dove mi pare. Arriva subito un’addetta ai posti per dirmi che mi devo spostare più giù (si presume, appunto), sul lato corridoio destro per intenderci, per ragioni di sicurezza:
«Sa in caso di incendio, intralcerebbe la strada».
Il corridoio è stretto, mentre io sono nell’angolo vicino al muro di una piazza d’armi. Lo faccio presente:
«Mi sa che rischio di intralciare più li che qui, e vorrei vedere il concerto con i miei amici»
«Mi dispiace, ordini della direttrice»
«Ci parlo io con la direttrice, dov’è?»
«Un momento».
Alla fine grazie alla mediazione pacifica di un amico, senza le mie ormai famose piazzate, rimango dove sono. Le luci si spengono e si apre il sipario.
Luci soffuse su una scenografia fatta di: un piccolo divano, un’abajour, due chitarre acustiche (una dodici corde), una semiacustica, un piccolo amplificatore su un mobiletto, uno specchio, una tastiera con seggiolino bianco, una tastierina su una lampada bluastra, tre microfoni, un tamburello con pedale da grancassa incorporato e due palloncini che fluttuano in aria legati al palco.
Entra Niccolò sotto uno scrosciante applauso e prende parola. Prima spiegando quanto sia difficile per un cantautore romano esibirsi nella sua città, per quanto si cerchi di renderlo un concerto come gli altri, non lo è. Lo paragona al derby calcistico tra Roma e Lazio: per quanto gli allenatori si sforzino di farlo passare come una normale partita di campionato, sappiamo tutti che non lo è (mai paragone fu più azzeccato). Poi introduce lo show che vuole essere un viaggio, un affaccio sulla scatola teatrale con le sue regole e le sue libertà, un racconto con la sua linea narrativa. E spera che ci lasceremo condurre in questo mondo privo di barriere e inibizioni.
Inizia il concerto.
Dopo il primo pezzo di scioglimento psicofisico dall’una e dall’altra parte, almeno per quanto mi riguarda, ha inizio un percorso su una strada sconosciuta ma accogliente, sulle prime pagine di un romanzo che ti rapisce, su una rappresentazione teatrale fatta di gesti e movimenti accattivanti. Un meraviglioso connubio di musica, poesia, teatro, sensazioni, pensieri, amore, libertà. La band viene sostituita da loop creati ad arte sul momento, che accompagnano i ritornelli di alcune canzoni. Il fatto che non ci sia la rende ancora più presente, come le persone di cui senti più forte presenza proprio quando non ci sono (sagge parole di Niccolò). Tra un pezzo e l’altro, a intervalli non regolari, Niccolò toglie un oggetto sempre accompagnando il movimento con una musica e lo congeda con dei gesti come se fosse un ospite dopo la sua performance. La gente applaude e capisce. Inizia ad affezionarsi agli oggetti, canta le canzoni. Anche gli strumenti vengono omaggiati da gesti d’entrata e d’uscita come fossero i membri del gruppo, e lo sono. Dopo un’ora e mezza di concerto, passata come un minuto, non mi sento sazio. E neanche il pubblico. L’ultimo oggetto a lasciare il palco è il tamburello/grancassa. E’ qui che la magia prende forma: la gente grida un no corale. Un no che significa non finire questo viaggio, non chiudere il libro, non abbassare il sipario! No! Vogliamo continuare!
Per il gran finale scandito dal famoso pezzo di Mina ‘Parole Parole’, rimangono sul palco Niccolò, la sua chitarra acustica e Lulù sottoforma di palloncini. I prolungati applausi fanno il resto.
Pochi giorni prima del concerto ho incontrato Niccolò e abbiamo parlato dello spettacolo. Aveva paura che l’impegno nella parte ‘meccanica’ (loops, vari strumenti, scenografia) avrebbe tolto profondità e poesia all’interpretazione. Ti assicuro amico mio che, al contrario, ne ha aggiunta e ha lasciato il segno.
E’ stato un bellissimo viaggio. Grazie Niccolò, davvero.