lunedì 7 marzo 2011

Assistenza Domiciliare

L’OSA è la cooperativa che nella mia circoscrizione fornisce l’assistenza domiciliare. Faccio capo a questa cooperativa, per quanto riguarda l’assistenza infermieristica settimanale, da quattordici anni. Avrò conosciuto all’incirca una ventina tra infermieri e infermiere, e sto arrotondano per difetto. Il rapporto professionale e umano che si instaura con la figura è, per forza di cose, molto intimo. D'altronde non potrebbe essere diversamente visto che si occupa delle cure igieniche e dello svuotamento rettale (l’indispensabile cagata mattutina per intenderci), almeno nel mio caso specifico. Come ho già detto ne ho cambiate molte negli anni, chi più chi meno brava, chi più chi meno simpatica com’è naturale che sia. Negli ultimi due anni ho avuto un’infermiera davvero speciale sotto tutti i punti di vista: Annalisa. Tra di noi, sin dal primo giorno, è nato un forte legame umano e professionale. Col senno di poi, avrei dovuto registrare le nostre interazioni mattiniere. Ve ne propongo una, dettata dal ricordo, che riassume il fantastico rapporto che si era creato.
Il suo arrivo si sentiva già all’ingresso di casa:
«E’ sveglio il principe?», di solito lo ero. A volte mi trovava appena alzato e partiva l’immediata ramanzina:
«Ancora stai a dormì?! Guarda che io ho da fare, non ho tempo da perdere»
«Cos’è un incubo? Sto ancora dormendo?»
«Ora ti do un bel pizzico dove senti così vediamo!»
«Oh madonna è arrivato l’uragano, stai calma»
«Te lo faccio vedere io ‘stai calma’, avanti in carrozza».
Il siparietto proseguiva in bagno mentre mi aiutava a fare la doccia, tra lanci di palle di bagno schiuma e schizzate d’acqua. Inframezzato da strofe e ritornelli di improbabili canzoni (da Mina a Rocky Roberts), cantati a squarciagola.
Insomma una ventata di energia positiva e leggerezza che aveva il potere di trasformare in bello anche il risveglio più cupo. Aspetto psicologico a mio avviso estremamente importante, che non viene neanche lontanamente preso in considerazione dalla cooperativa. Morale della favola: da un giorno all’altro decidono di effettuare un cambio infermiera per motivi amministrativi. Così mi è stato giustificato nelle mie accorate telefonate. Nel mese successivo c’è stato un avvicendarsi di figure talvolta imbarazzanti per la scarsa preparazione professionale. Non sto qui a dilungarmi in esempi, ma vi assicuro che in quattordici anni di disabilità un minimo di esperienza l’ho acquisita. Sono in grado di capire nel giro di cinque minuti se uno sa fare il suo lavoro o meno. Alla fine la situazione si è pressochè stabilizzata con un’altra infermiera più o meno preparata e sufficientemente piacevole (lontana anni luce da Annalisa). Con una fastidiosa novità: se Annalisa veniva tra le nove e mezza e le dieci, questa non arriva prima delle undici-undici e mezza. Per me è un problema. Non sono mai pronto e seduto prima delle dodici e trenta. Mi rovina tutta la mattinata facendomi perdere ore fondamentali per scrivere, oltre che precludermi qualsiasi tipo di appuntamento (ospedali, banca, mercato), che devo posticipare al pomeriggio togliendo ulteriori preziose ore alla scrittura. Inizio a chiamare la caposala della coperativa per risolvere il problema. Ogni volta mi sento dire che parlerà con l’infermiera e farà di tutto per cambiare l’orario, ma la musica non cambia di una nota. E non potrà mai cambiare visto che la ragazza viaggia in autobus e ha tanti pazienti prima di me. Non ce la può fare prima di quell’orario. Qualche giorno fa esasperato dall’attesa, alle undici e quaranta ancora neanche l’ombra, chiamo la cooperativa. La caposala non c’è, mi passano un responsabile: Daniele.
Gli spiego il mio problema e lui mi risponde con un discorso anche giusto: ci sono pazienti che necessitano di cure a orari precisi per insuline e altri trattamenti importanti. Lungi da me scavalcare persone che necessitano di cure precise. Se c‘è una dote che ho sviluppato in questi anni è la solidarietà, soprattutto nei confronti di chi sta male. Gli faccio però notare che ho un lavoro e che c’è stato un cambiamento di orario abbastanza importante (allora potevate lasciarmi Annalisa), e che di conseguenza anch’io ho delle necessità. E’ qui che il discorso di Daniele cade in un buco nero che mi ha obbligato a scrivere questo post, pronunciando le frasi che da un ‘responsabile’ non ti aspetti:
«Lei quindi lavora, esce?»
«Si perché?»
«Sa noi diamo assistenza esclusivamente a chi non deambula».
Qui sarebbe stato giusto coprirlo di insulti. Mi sono limitato a dargli del ridicolo. In realtà la frase è di un’incompetenza e di una superficialità agghiaccianti. Innanzitutto caro Daniele, visto che sai che sono anni che ricevo la vostra assistenza, dovresti anche sapere che la mia patologia è: tetraplegia completa spastica a livello C 5-6. Significa che ho l’ottanta per cento del corpo paralizzato, muovo il braccio destro bene, quello sinistro molto male e ho entrambe le mani paralizzate (scrivo con la nocca del mignolo della mano destra). Deambulo su una sedia a rotelle e si, caro Daniele, esco. Potrà sembrare strano a qualcuno che evidentemente pensa, come purtroppo gran parte della gente, che il disabile è tale quando sta a casa con mamma e zia e con una copertina sulle gambe. Io invece esco, vivo, condivido emozioni e mi diverto come se non più degli altri. Dovresti essere così sensibile da capirlo visto il ruolo che ricopri. Ti dirò di più, oltre che scrivere, sono anche musicista e produttore musicale. Io e la mia carrozzina abbiamo ‘deambulato’ in turnè per tutta l’Italia, su palcoscenici importanti. Pensa un po’ che strano. Oltretutto la mia patologia mi garantirebbe per legge l’assistenza sei giorni a settimana. E’ solo per mia scelta che ne usufruisco per soli tre, quindi vi sto facendo un favore. Ultimo aspetto da non tralasciare: mi hai congedato al telefono dicendo, anche tu, che ne parlerai con l’infermiera. Questo aspetto democratico del rapporto lavorativo non esiste. Voi imponete una determinata mole di lavoro ai vostri dipendenti che, se non ce la fanno, sono liberi di trovarsi un altro impiego. Ce ne fosse stato uno in questi anni che non mi ha parlato male della vostra conduzione. Tutto questo mi ricorda il nostro governo: democratico fuori, dittatoriale dentro. Adesso, siate gentili, cercate di venirmi un minimo incontro sugli orari. A presto.

mercoledì 2 marzo 2011

Incontri (un racconto breve scritto mesi fa...)

Vago per strade a me familiari, in mezzo alle ombre di ciò che potrebbe essere stato mio, di ciò che ho perso e di quello che sarei potuto diventare. Credo siano pensieri comuni dopo una certa età. Si invecchia e si pensa agli errori commessi, alle occasioni mancate. Solo che io una certa età ancora non ce l’ho. Non sono neanche vicino ad averla. Si dice che uno è vecchio quando vive di ricordi. Io semplicemente ricordo, ma non mi sento vecchio. Forse sono proprio le proiezioni nel mio passato a tenermi in vita. Così lontano ormai che sta diventando sempre più difficile metterlo a fuoco. Un passato sfocato, ma ancora vivo e vibrante.

Se non fossi mai tornato da New York?
Se avessi comprato la nuda proprietà della casa in fondo alla via?
Se avessi suonato la tromba invece della chitarra?

Certo sarebbe un altro presente. Chissà se più o meno doloroso e difficile di questo. E un nuovo passato, e un futuro incerto, com’è giusto che sia.
Vorrebbe dire cancellare incontri, amicizie, amori. Cancellerei anche tanto dolore, ma per trovarne di nuovo e sconosciuto. Insomma tabula rasa e via, si ricomincia da zero. Da una tela immacolata.
Ma io non ho voglia di ricominciare, non voglio cancellare il quadro che a fatica ho dipinto finora.
Apro gli occhi e sono davanti al ristorante di Aria. Sorpreso. Mi ero scordato di essere uscito per venire qui. Guardo i tavoli fuori, pieni di gente. Una ragazza di schiena, con taccuino e penna in mano, prende un ordine. E’ una schiena che non ho mai visto. Si apre il portellone del furgone: è Michele che mi saluta e inizia immediatamente le operazioni per farmi scendere.
«E di chi sarebbe quella bellissima schiena?», chiedo.
«Sarà Daniela»
«No, Daniela la conosco e quella schiena se la sogna»
«Gina?», Michele continua a rispondermi senza guardare, intento a liberare la carrozzina dalle cinghie che la bloccano.
«Gina di spalle sembra un giocatore di rugby, se magari ti fermi un secondo e guardi la finiamo con l’interrogatorio». Si ferma giusto l’attimo necessario per darle un’occhiata distratta:
«Non l’ho mai vista»
«Ma è il ristorante della tua fidanzata o no?»
«Sarà nuova».
Come potrei vivere un presente senza Michele. Non sembra esserci cosa in grado di sorprenderlo o coglierlo impreparato.
Entriamo nel ristorante e veniamo accolti da Aria e da suo padre Gianfranco, romano doc vecchio stampo. Mentre lo saluto, la ragazza che avevo visto di schiena mi passa davanti con due portate in mano. Mi sorride. E’ un sorriso dolce, solare anche se di passaggio. Un sorriso indaffarato. E un bel viso.
Gianfranco ci sistema di fuori, vicino alla cucina:«Così magni prima».
Saluto il resto del personale e mi faccio elencare i piatti del giorno. Tanto so già che ordinerrò la pasta con le telline. Vado a periodi, e questo è il periodo che mi piacciono le telline. Tra un po’ passerò al risotto agli scampi piuttosto che ai vermicelli coi moscardini. Una bottiglia di bianco fredda e un secondo.
«Chi mangia?», eccola di nuovo con tovaglioli e posate in mano.
«Io bevo», dichiara con la solita flemma Michele.
«Io mangio e, se avanza, berrei anche».
Sorride ancora. Sistema il coperto e mi porta il pane. La ringrazio.
Mangio la tellina e ordino anche il tonno alla griglia, annaffiando il tutto con l’ottimo vino. Sono di spalle rispetto agli altri tavoli esterni; vorrei sapere dov’è, guardarla per cercare il suo sguardo. Sperare che si avvicini per scambiare una battuta. Vivere quel momento di beato conflitto quando non sai dove troverai il coraggio per aprire bocca. Ma la carrozzina è bloccata sotto al tavolo e il mio collo non è più mobile come una volta. Potrei chiedere ad Aria di presentarmela o di portarla al tavolo, ma non voglio trucchi ne strategie. Mi basta uno sguardo sincero. Finisco la cena senza vederla. Anche perché il mio tavolo è circondato da tutto il resto del personale più proprietari. Ne deduco che lei sta impazzendo dietro al resto del ristorante.
«Non saremo in troppi a servì ‘sto tavolo?», come se mi avesse letto nel pensiero e con tutto il carico della sua romanità, Gianfranco riavvia i cervelli sopiti dei lavoranti, che riprendono le rispettive posizioni. Sembravano lavorare solo per il mio tavolo. Come potrei sopportare un presente senza le persone che ho intorno; che ho conosciuto dopo l’incidente; che amo profondamente.
Finisco la cena e il vino. Mi libero dalla morsa del tavolo e mi metto schiena al muro per riuscire a guardarla. I tavoli fuori sono vuoti e di lei neanche l’ombra. In effetti è già mezzanotte. Il mio girovagare mi aveva fatto arrivare tardi.
Finalmente la vedo uscire. Ha sciolto i capelli. Apre lo sportello della macchina e mi guarda.
«Ciao» le grido quasi senza volerlo.
«Ciao» mi risponde con lo stesso sorriso solare, stavolta meno indaffarato ma sempre di passaggio. Entra nell’auto ma continua a guardarmi. E’ semi nascosta da una pianta ma sento i suoi occhi addosso. Lo sguardo sincero. Rimani ancora li, ferma con la macchina in moto. Se potessi alzarmi verrei a convincerti che devi rimanere, che stai commettendo uno sbaglio di cui ti pentirai per sempre. E chissà cos’altro sarei in grado d’inventarmi per non lasciarti andare. Ma tu stai uscendo dal parcheggio e io sono inchiodato qui. E’ mezzanotte, sei Cenerentola e scappi via. Ma non lasci scarpette, e io non sono il principe azzurro.
Magari la prossima volta ti fermerai per qualche minuto, magari mi rivolgerai la parola, magari mi penserai un po’, magari non ti ricorderai nemmeno di avermi visto.
E allora ti porterò un fiore.
E questo racconto attaccato al gambo.
E la consapevolezza che qualcuno non potrebbe sopportare di vivere un presente diverso.