sabato 24 dicembre 2011

Si è rotta la mega serranda del salotto. Non poteva che succedere il 24 Dicembre. Per fortuna c'è Marco ''il polacco'', tuttofare di quartiere, che si è gentilmente precipitato a risolvere il problema. Sarebbe tutto molto bello, se non fosse che: Marco ha la voce più squillante che abbia mai sentito; quella di mia madre è nota per superare l'insonorizzazione di uno studio di registrazione; il connubio delle due, che conversano come se fossero due amici ritrovatisi dopo trent'anni, sta disintegrando le mie già provate sinapsi cerebrali. Cercando di arginare il sangue che mi sta uscendo dalle orecchie con la potenza delle cascate del Niagara (si scrive così?), vi auguro un buon natale e un felice anno nuovo!

venerdì 4 novembre 2011

New York/Charleston prima parte

In questo preciso momento mi trovo su un volo nazionale americano diretto a Charleston, città dove si celebrerà il matrimonio di mia nipote Eva, motivo del viaggio negli Stati Uniti. L’aereo è davvero piccolo e stretto. L’unica robustissima hostess presente ha non poche difficoltà di movimento, e nonostante sfoderi grandi sorrisi di circostanza, si vede che sotto sotto non gradisce il velivolo assegnatole. Non lo gradisco nemmeno io, ma è un altro discorso che non ha niente a che vedere con le difficoltà di movimento (del resto io non mi muovo). Si tratta della mia atavica paura di volare, che ormai conosco così bene da non avere quasi più paura. Un tempo, alla vista di un aereo così piccolo, sarei stato capace di rifiutarmi di salire a bordo inscenando improvvisi quanto drammatici malori da premio Oscar della tragedia. Ora semplicemente ignoro la paura, faccio finta di non averne, e devo dire che mi riesce bene (ovviamente non quanto i finti malori). Ma facciamo un passo indietro. Sono arrivato tre giorni fa a New York con un volo Alitalia. L’assistenza aeroportuale è ormai perfetta, l’assegnazione dei posti no, anche perché quelli dove le mie lunghe gambe sarebbero a loro agio sono gli unici vietati a un disabile. Per motivi di sicurezza infatti, non posso sedere vicino alle porte dell’aereo, in caso di evacuazione intralcerei il passaggio. Questo presuppone che io e il mio assistente, in caso di evacuazione – invece di lanciarci fuori più veloci della luce -, ce ne staremmo belli comodi e rilassati aspettando il completo svuotamento dell’aereo: due imbecilli. Il volo è stato quindi molto scomodo, ma tranquillo dal punto di vista della mia paura: non ho davvero avuto motivi per averne, neanche a cercarli con pignoleria.
Una bellissima novità è la possibilità di vivere decollo e atterraggio in video grazie a telecamere posizionate a dovere. L’atterraggio in particolare sono riuscito a viverlo con meno angoscia del solito, proprio grazie alla distrazione visiva culminata in una scenetta da sit com: alla fine del tratto di pista percorso per arrivare al punto di parcheggio dell’aereo, sempre ripreso dal vivo, un omone nero con dietro una parete di mattoni rossi lo ha guidato con le classiche lampade segnaletiche rosse, andando perfettamente a tempo con la musica che in quel momento suonava all’interno. Finendo l’improvvisato balletto alzando lentamente entrambe le braccia verso l’alto, fino a incrociare le due lampade sopra la testa, e ridendo da solo mentre usciva di scena (probabilmente consapevole della spietata inquadratura).
L’assistenza americana non è ancora all’altezza. Come al solito, dopo aver visto sfilare tutti i passeggeri, sono rimasto da solo in attesa degli addetti. Dopo alcuni minuti è apparso un funzionario che mi ha chiesto:
«Può camminare?»
«Ovviamente no».
Il funzionamento del cervello umano a volte è davvero misterioso. Se avessi potuto camminare, non sarei rimasto mezz’ora sull’aereo completamente vuoto. Sarebbe stato un comportamento psicologicamente instabile. Ma è proprio quando si crede di aver raggiunto l’assurdo, il surreale, che arriva la richiesta che rompe tutte le barriere dell’immaginario:
«Neanche piano piano, se la aiutiamo noi?»
«...».
E allora preferisco non rispondere, e aspetto l’arrivo della mini carrozzina da aereo guardando il nulla fuori dal finestrino. Che immancabilmente arriva (la carrozzina, non il nulla), guidata da un ragazzo accompagnato da una signora attempata che non fa neanche il gesto di aiutare, si tiene a debita distanza. Proprio non possono accettare il fatto che qualcuno, non solo non sia in grado di camminare, ma non riesca nemmeno a trasferirsi autonomamente dal sedile dell’aereo alla mini carrozzina. Un evento più unico che raro. Per fortuna viaggio con il mio caro amico Miky, mio ex assistente, che sa bene come gestirmi. Grazie al suo prezioso aiuto, arrivo illeso al recupero della mia amata (...) sedia a rotelle.

I tre giorni a New York sono stati fantastici, soprattutto per gli incredibili incontri: qualche giorno prima di partire ho scoperto che Simone, il mio migliore amico che vive a Delhi, sarebbe passato nella grande mela insieme alla moglie Jenny, nel mio stesso periodo. Il fatto che io e Simone abbiamo vissuto insieme a NY per più di un anno, tra il ’92 e il ’93, rende l’incontro ancora più speciale. Se ci aggiungiamo anche che Jenny viveva a NY nel nostro stesso periodo, a poche centinaia di metri dal nostro appartamento; frequentava gli stessi locali dove andavamo noi, e che nonostante questo, non ci siamo mai visti, diventa surreale (come le domande del tipo sull’aereo: tutto quadra). Abbiamo trovato una città nuova, cambiata in ogni suo aspetto – come già ho raccontato in un precedente post – ma sempre affascinante. Tanto che dopo due giorni, siamo arrivati a pianificare un futuro ritorno a viverci. Ho incontrato anche Luca, un altro caro amico che vive qui da una ventina d’anni. Mi ha portato subito a Zuccotti Park, il posto occupato dagli ‘indignados’ americani. Vicino Wall St. e davanti a Ground Zero. Chi conosce un minimo gli stati uniti, sa quanto sia strano assistere a un’occupazione con tende, cucina, libreria, gruppi elettrogeni per fronteggiare il freddo incombente, tamburi che suonano durante il giorno, discorsi e gruppi di discussione dalla mattina alla sera. Insomma una mobilitazione sapientemente organizzata, con l’aiuto di ogni genere di donazione: da quella economica a quella culinaria, dai libri alla costituzione di un giornale ironicamente chiamato: The occupied wall street journal. Mi ha colpito molto il modo che hanno trovato per amplificare discorsi e annunci. Visto che per questioni di disturbo della quiete pubblica non è possibile abusare di impianti stereo o urlare dentro megafoni, usano un curioso metodo: la persona che espone il suo discorso, lo fa pronunciando una frase alla volta che viene ripetuta a voce alta da tutta la gente che ascolta. Una specie di eco-megafono naturale, molto democratico.
La tre giorni new yorkese è, purtroppo, filata via velocemente, condita da uno sfrenato shopping favorito dal vantaggioso cambio euro-dollaro, e dall’altrettanto sfrenato abuso di cibo: malese, marocchino, giapponese e, naturalmente, americano. Overdose di hot dog ai baracchini su strada e hamburgers vari. E’ stato bellissimo tornare al Lucky Strike, un bar-ristorante che negli anni ’90 era l’unico posto dove si poteva mangiare fino a tarda notte. Ogni volta che ritorno a NY, ho la sensazione di essere a casa. Mi sta balenando in mente l’idea di venirci a stare due mesi in primavera e magari, in un prossimo futuro, trasferirmi di nuovo in pianta stabile. La città è cambiata molto, anche in peggio da alcuni punti di vista, ma anche gli abitanti sono cambiati, e in meglio. Ho trovato un’umanità nuova, una voglia di socializzare e di condividere che non è mai stata una loro caratteristica, semmai il contrario.

Charleston è una città turistica piena di negozi e bar di ogni tipo, con le sue costruzioni tipiche del sud degli States. Case basse, coloniali con la classica veranda fuori dell’ingresso. Storicamente importante perché culla dello scoppio della guerra civile. E’ anche una città universitaria piena di giovani, pronti a fare festa tutte le sere, e un’ambita meta per la celebrazione di matrimoni. La mia famiglia si è spostata in massa proprio per questo: il matrimonio di mia nipote Eva. Nonostante le ansie pre partenze di mia sorella Roberta, che cerca in tutti i modi di farti provare in egual misura, e il favoloso mondo in cui vive mia madre, fatto di articolate quanto inesistenti preoccupazioni e sistematica perdita di oggetti della quale incolpa tutti (per poi scoprire di averli ordinatamente riposti in cassetti troppo visibili per essere presi in considerazione), siamo riusciti a non implodere. Anzi, il matrimonio ha agito da collante per ritrovarsi tutti insieme, fatto assai raro. Che questa reunion avvenga a Charleston in South Carolina, è un dettaglio marginale e al contempo surreale (d'altronde è il light motif di questa vacanza). Ma andiamo per gradi.
La stanza accessibile del Francis Marion Hotel dove alloggio, è tutto meno che accessibile: la moquette rende difficile qualsiasi spostamento; il letto è così alto, che anche una persona normale avrebbe bisogno di un’attrezzatura da scalatore per raggiungerlo; il lavandino del bagno ha due rubinetti impossibili da aprire; la doccia, oltre a avere una porta di vetro con scalino, ha il getto fisso attaccato al muro e non quello mobile standard. Siamo costretti a usare un secchio per lavarmi le gambe, i piedi e il sedere (tirandogli secchiate d’acqua dal basso verso l’alto). Insomma, una stanza da percorso di giochi senza frontiere.
Il matrimonio super americano si sviluppa in tre giorni. A me sembrano già infiniti i nostrani, questo mi spaventa. La prima sera ci ritroviamo tutti al secondo piano di un bar, con bellissima balconata e free drinks. Manca la sposa, che dopo le fatiche organizzative e l’ovvio accumulo di stress, si è presa un giorno di riposo. Oppure sta già recitando da protagonista il film del suo matrimonio. D’altra parte, come insegna Moretti:«Mi si nota di più se non ci sono». La serata risulta essere molto piacevole. La lunga schiera di fratelli della madre della sposa, ci accoglie amorevolmente. I due fratellastri di mia nipote, ormai cresciuti (l’ultima volta che li ho visti erano bambini), sono fantastici: Jack vuole fare il regista e già lavora con il padre; Miles fa il musicista-cantautore, e oltre a essere bravo, è anche bello come il sole. Anche se praticamente non ci conosciamo, si mostrano molto affettuosi. Anche Tim, il papà, si comporta come se ci fossimo visti il giorno prima. E non sono comportamenti di circostanza, me ne accorgerei. Arriva Kyle, lo sposo, che ho conosciuto a Roma mesi fa. E’ un ragazzo intelligente e simpatico. Ci accomuna l’amore per il calcio: io da appassionato, e lui da ex calciatore professionista. Giocherebbe ancora, ma ha un problema di fragilità ossea e per questo ha dovuto smettere. Ora fa il commentatore sportivo per la tv americana Fox. Faccio amicizia con alcuni suoi amici e con parte della sua famiglia. L’alcol gratuito comincia a fare effetto e i giovani invitati iniziano a lanciarsi in sconclusionate danze, che sfociano in sfide di improvvisata breakdance (che fa molto america). Al momento di lasciare la festa per rientrare in albergo, vengo intercettato da Kyle che mi propone un’altra bevuta veloce. Con un gruppo di suoi amici, Tim, Jack e Miles ci trasferiamo nel bar di fronte, dove finiamo di ubriacarci a dovere. Rientrando in albergo incrocio una marea di giovani travestiti e truccati nei modi più impossibili. Non è l’alto tasso alcolico a farmeli vedere, ci sono davvero. E’ il week end che coincide con la festa di Halloween, e qui la prendono alquanto seriamente. Non posso fare a meno di notare che sono tutti vestiti molto leggeri, estivi. Non fa freddo, ma non è neanche più estate. Io, con maglioncino, pantalone di velluto e tasso alcolico fuori norma, sono al limite della sopportazione. Ne deduco che: o sono tutti più ubriachi di me (opzione più che realistica), oppure si tratta di una presa di posizione netta contro l’inevitabile arrivo del freddo, una specie di esorcismo contro la cattiva stagione. Accompagnato da questo dubbio cosmico, vado a preparare la cordata per conquistare la vetta del mio letto.
La mattina, in teoria, è in programma una caccia al tesoro; in pratica, non ci vado. Io e Miky ci svegliamo in tempo per saltarla a piè pari, cioè tardi. Con grande calma ci prepariamo, facciamo colazione a suon di muffins e caffè americano e ce ne andiamo in giro per negozi, in compagnia dei postumi della sbronza. La temperatura è scesa notevolmente e tira vento. Indosso una felpa di pile e un piumino mezze maniche acquistati a New York, mentre la gente continua con i pantaloncini e le magliettine. Non capisco, ho quasi voglia di fermare qualcuno e chiedergli perché non sente freddo. Incontriamo sorelle e madre di ritorno dalla caccia al tesoro, infreddolite (loro sì) e affamate. Ci infiliamo in un sushi-thai dove, nonostante la persistente nausea da hangover, ordino una zuppa tom gha khai che mi rimette al mondo. Altra peculiarità del posto, in linea con l’atteggiamento esorcistico contro il freddo, è la costante presenza di aria condizionata nei locali. Fa più freddo al chiuso che all’aperto. Forse hanno accumulato talmente tanto caldo in estate, che il corpo deve ancora smaltirne gli eccessi.
Alle 16.30 ci vengono a prendere davanti all’albergo con un tipico autobus del posto. Tutto di legno, dalla forma rettangolare e tipicamente inaccessibile. L’autista si scusa e ci aiuta a farmi salire a bordo. Arriviamo in una meravigliosa e enorme casa che si affaccia sui canali della laguna interna di Charleston, dove si tiene un «Oyster Toast»: un aperitivo-cena a base di ostriche e cibo cajun sudista. Gli sposi accompagnati dalla schiera di testimoni, amici e parenti, si presentano su due motoscafi che attraccano sul molo antistante la costruzione. Fa un freddo cane. Infatti la grande veranda si svuota presto. L’unico spazio praticabile è quello davanti al meraviglioso camino esterno. Il salone interno è enorme e pieno di tavoli. C’è uno spazio dedicato ai musicisti - con microfoni, chitarre e due grandi altoparlanti - e alle eventuali danze. Alla fine della cena (non scorderò mai le tortine di granchio calde) partono i discorsi di rito, introdotti dal padre dello sposo. La sua famiglia è originaria di Charleston, per questo il matrimonio si celebra qui. Mi perdo il primo, quello del migliore amico dello sposo – che mi dicono essere stato molto divertente -, perché ipnotizzato davanti al fuoco del camino esterno (i camini mi fanno questo effetto). Mi becco invece quelli dei due testimoni ufficiali: il fratello di Kyle e l’amica del cuore di Eva. Fossi rimasto davanti al camino, non avrei fatto un soldo di danno. Questo genere di discorsi, dove vengono esaltate le incredibili qualità delle persone, il loro essere perfetti e meravigliosi esseri umani, mi da il voltastomaco. Li trovo di una rara ipocrisia. Perché non essere sinceri? Non è possibile che tutte le coppie che si sposano siano composte da due creature meravigliose. Avranno anche loro dei difetti, dei lati oscuri, degli aneddoti di pura cattiveria. Sarebbe più divertente mischiare le due facce della medaglia, sempre in vena ironica. Io l’avrei fatto, e se mai mi dovessi sposare (evento improbabile), vorrei che il mio testimone lo facesse. Devo dire che il discorso completamente autoreferenziale del fratello mi ha fatto ridere. Ha parlato di se stesso, e bene, per l’ottanta per cento del tempo, a tratti auto commosso, fantastico! La serata è andata avanti a suon di musica. Molti amici e parenti hanno dedicato canzoni alla coppia. Tutti molto bravi tranne, ahimè, uno: Tim. Il patrigno della sposa ha cantato due canzoni: un pezzo di Dylan molto bello, che gli è venuto anche bene; e uno scritto appositamente per Eva, il giorno stesso.
Ecco, ci sono delle cose nella vita che non andrebbero mai fatte. Una di queste è comporre una canzone cinque ore prima di presentarla in pubblico, a maggior ragione se dedicata a qualcuno che ami. Nel novantanove percento dei casi, viene fuori una cagata. La musica è una cosa seria, non va violentata. Oltretutto si tratta di una tripla violenza: verso la musica, verso la persona per cui l’hai scritta e verso il pubblico che è costretto a sentirla. Testo da rabbrividire, esecuzione musicale da dimenticare, melodia non pervenuta. Potrei essere ancora più cattivo, ma per affetto mi fermo qui.
A serata finita ci siamo ritrovati democraticamente in fila al freddo in attesa del tipico autobus. Miles ci ha intrattenuto, chitarra in braccio, cantando le sue canzoni, e ha continuato sull’autobus per tutto il tragitto. Per un attimo mi è sembrato di essere negli anni ’70, con la mia famiglia fricchettona in giro per l’America. Non avrei potuto immaginare una conclusione migliore...

giovedì 22 settembre 2011

La Piscina

Rieccomi qua! Sono ancora vivo! Scusate la lunga assenza. Ho passato quasi tutto il mese di Agosto a risolvere un problema fisico e sono molto impegnato nel finire il mio romanzo. Cercherò di farmi sentire più spesso. Qualche mese fa ho scritto un racconto, spero vi piaccia. A presto!

In Texas fa caldo.
Un caldo soffocante, opprimente. La Chevy Malibu del ’75, acquistata per settecento dollari a Los Angeles, è l’equivalente di un forno a micro onde. Fa così caldo che ogni duecento miglia siamo costretti a fermarci per aggiungere acqua al radiatore, per evitare che esploda. Non siamo neanche tanto sicuri che riuscirà a riportarci a casa, a New York. Considerando quello che è costata, è già un miracolo che sia arrivata fino qui.
Simon, mio coinquilino e amico di una vita, è al posto di guida mentre io me ne sto sprofondato sul morbido sedile anteriore unico, con le gambe allungate e i piedi fuori dal finestrino, poggiati sullo specchietto retrovisore. Quasi a volermi riparare dalle folate di caldo che invadono l’abitacolo.
«Spero che ti si spiaccichi un bel calabrone sopra, cosi quei piedi puzzolenti li tiri dentro una volta per tutte»
«Mi mancava un pensiero carino stamattina. Se puzzano, meglio fuori che dentro no?».
Siamo partiti da una cittadina di cui ho già dimenticato il nome, dopo aver pernottato in un motel pieno di scarafaggi. Siamo diretti il più velocemente possibile fuori dal Texas e dal suo caldo infernale. Abbiamo già percorso duecento miglia su una statale in mezzo al deserto dove non passa un’auto, esattamente uguale a quelle che si vedono nei film; quelle in cui ti sembra di essere l’unico abitante della terra sopravvissuto dopo chissà quale disastro naturale; quelle che ti senti al sicuro perché sei solo, e soli si sta meglio.
Passiamo un cartello che indica la prossima città a cinquecento miglia. Improvvisamente la macchina inizia a sbandare. Simon la controlla e si accosta. Scendo e mi accorgo subito che abbiamo bucato. Restiamo un attimo fermi a guardare il danno:
«Visto che te ne sei stato comodo a non fare un cazzo fino adesso, la ruota la cambi tu»
«La notte con gli scarafaggi ti ha fatto bene all’umore. La ruota la cambiamo insieme, prendi il crick».
Mentre lui alza la macchina, io mi carico la ruota di scorta. Tolgo quella forata e cerco di infilarla. Quando abbiamo preso l’auto ci siamo assicurati che avesse una ruota di scorta, ma non siamo arrivati a controllare che fosse uguale alle altre. Infatti non lo è: a guardarla sembra identica, ma i buchi dove si infilano i perni sono diversi. Mi innervosisco subito:
«Cristo! Ecco perché costava così poco maledetti bastardi! E adesso?»
«E adesso non lo so!».
Ho sete. Infilo una mano dentro l’auto e prendo la tanichetta da quattro litri di plastica che usiamo per bere da quando siamo partiti, riempiendola a ogni sosta. Ci sono due dita d’acqua. E’ la prima volta che ci dimentichiamo di riempirla. La situazione è pessima: siamo in mezzo al deserto con la macchina bloccata per di più senz’acqua. Ne beviamo un sorso per uno. Forse proprio la situazione di alta emergenza ci fa concentrare per trovare una soluzione. Simon mi guarda con espressione corrucciata:
«Facciamo così Law, mentre io cerco di inventarmi qualcosa con la ruota, tu vai a dare un’occhiata al cartello che abbiamo passato. Magari ci è sfuggita un’indicazione per una località più vicina»
«Vado».
Senza discutere come siamo abituati a fare, mi incammino sotto il sole cocente. Non siamo soliti chiamarci per nome, quando succede vuol dire che c’è un problema da risolvere e si accende subito la catena di montaggio. L’affiatamento della nostra lunga amicizia si manifesta ed è tutto finalizzato alla risoluzione del problema. Il cartello indica che la città più vicina è San Antonio a cinquecento miglia, ma non dice se c’è qualcosa in mezzo. Ritorno alla macchina e trovo Simon che sta rimettendo a posto il crick. La ruota di scorta è montata.
«Ma come hai fatto?»
«Ho spezzato due perni e ce l’ho fatta entrare»
«Due su quattro? Non può reggere, alla prima buca si spezzano anche gli altri»
«Qui non possiamo restare. Non passa nessuno e siamo già disidratati, proviamoci andando piano piano. Ma il cartello?»
«Niente prima di cinquecento miglia»
«Magari troviamo una stazione di servizio, almeno il serbatio è pieno»
«Al limite ci beviamo un bel bicchiere di benzina».
Simon accenna una risata poco convinta, del resto c’è poco da ridere. Saliamo in macchina e ripartiamo. Viaggiamo a quindici miglia all’ora sul ciglio della strada. Mi sporgo in continuazione per controllare la ruota. Fa sempre più caldo e dopo due ore non abbiamo incrociato ne stazioni di servizio ne auto. Non ci siamo neanche rivolti la parola, forse per evitare di farci venire ancora più sete di quella che abbiamo. L’acqua è quasi finita. Mi sembra assurdo il fatto che in una nazione all’avanguardia come gli stati uniti, stia rischiando di morire di sete in mezzo al deserto. E’ un pensiero surreale e infatti mi viene da ridere, ma la realtà è che all’orizzonte vedo solo rocce e terra rossastra. Dopo un curvone interminabile in mezzo a un piccolo canyon, appare un’uscita con un cartello sporco di terra e consumato dal calore. A malapena si legge la scritta: Kingstown. Senza pensarci due volte Simon si infila nella piccola stradina, costeggiata su entrambi i lati da un costone di roccia rossa dolcemente levigata dal tempo. Mentre la percorriamo mi sporgo ancora dal finestrino per controllare la ruota. Un’enorme ombra mi copre per un attimo dal sole. Mi giro di scatto e alzo lo sguardo: un’aquila con le ali completamente aperte sta planando parallelamente alla macchina a una decina di metri d’altezza. Riesco a distinguere il collo bianco e il becco giallo:
«Simon guarda!»
«Cosa?»
«Una cazzo d’aquila!».
Simon si sporge verso il mio finestrino e si dimentica che sta guidando. Vedo la macchina sterzare e dirigersi verso il muro di roccia. Caccio un urlo disumano. Simon riprende il controllo, riesce a evitare l’mpatto e si ferma. Scendiamo all’unisono e vediamo il rapace riprendere quota e sparire dietro il costone:
«Non avevo mai visto un’aquila così da vicino»
«Neanch’io, infatti non l’ho vista»
«E meno male, se no ci saremmo schiantati contro il muro! Cammina, rientra in macchina e andiamo»
«Sei fortunato che almeno l’ho vista allontanarsi, non ti avrei mai creduto»
«Posso immaginare il poutpourri di insulti che mi sarei beccato, e invece...»
«Andiamo a vedere che ci riserva Kingstown, come inizio non c’è male».
Riprendiamo a percorrere la stradina che sembra non avere fine, anche per colpa della nostra lenta andatura. Mi chiedo se l’incontro ravvicinato col rapace nasconda qualche significato. Sicuramente nella cultura degli indiani d’America vorrà dire qualcosa, ci vorrebbe uno sciamano. Mi vengono in mente i libri di Castaneda: chissà cosa direbbe Don Juan. Dopo qualche minuto i costoni di roccia degradano fino a sparire. Come per incanto la visuale si allarga e lo spettacolo che si presenta ci lascia a bocca aperta.
Sulla sinistra c’è una piscina con tanto di trampolino, circondata da un giardino con prato all’inglese dove sorge anche una casetta di legno. Accanto alla piscina una grande costruzione che somiglia a un hangar aeroportuale. Dalla parte opposta della strada, una casa con antistante giardino e di seguito quello che assomiglia a un piccolo bar-emporio. La piscina e popolata di ragazzi adolescenti, ragazzini più piccoli e qualche donna. Ci guardiamo increduli non sapendo bene cosa fare. Il contrasto dal nulla del deserto delle ultime quattro ore a questo, è troppo forte e netto. Abbiamo bisogno di qualche minuto per elaborare la visione. Decidiamo di procedere per necessità: comprare acqua la prima. Parcheggiamo davanti all’emporio. Al mio ingresso vengo accolto da un signore di mezza età, capigliatura folta bianca e un paio di occhialetti tondi da vista. Non mostra grande sorpresa nel vedermi, nonostante sia accaldato e sporco di terra e nero di copertone:
«Salve»
«Salve, avete bottiglie d’acqua fredde?».
Mi indica un frigorifero a vetri pieno di bevande. Lo apro e prendo quattro bottiglie. Mi avvicino e le appoggio sul bancone.
«Abbiamo un problema alla macchina, mi saprebbe dire se c’è un meccanico nelle vicinanze?»
«Il meccanico abita qui accanto e quella è l’officina», con un sorrisetto ironico mi indica l’hangar accanto alla piscina. Lo fisso per qualche secondo indeciso se mi stia prendendo in giro. Lo nota:
«Qualcosa non va?»
«No no, mi scusi. Quanto le devo?»
«Sono due dollari e mezzo, e se vuole darsi una pulita qui fuori c’è un rubinetto con lavabo», sorride ancora.
«Grazie. Che lei sappia, il meccanico è in casa?»
«Si, vada pure a bussare non ci sono problemi»
«Grazie ancora, arrivederci»
«Buona giornata».
Esco dal negozio. Simon mi aspetta seduto sul cofano. La mia faccia deve essere tutto un programma. Se ne accorge:
«Che è successo?»
«Se te lo dico non ci credi»
«Dai spara»
«Questa è la casa del meccanico e quella l’officina», Simon mi guarda senza parlare «il tipo dentro mi ha detto che possiamo bussargli».
Ci beviamo quasi un‘intera bottiglia a testa e ci diamo una sciacquata nel lavabo. Sono le due e mezza di pomeriggio e il caldo è al suo apice. Entro nel giardino e busso alla porta. Mi apre il meccanico in tuta da lavoro. Ha i capelli castani e due baffoni scuri.
«Salve, mi dispiace disturbarla a quest’ora. Il proprietario del negozio qui accanto mi ha detto che potevo bussarle»
«Salve, nessun problema. Dimmi»
«Ho un guaio alla macchina. Montando la ruota di scorta ho rotto due perni...», non mi fa finire il discorso.
«Dammi dieci minuti, intanto porta la macchina davanti all’officina che gli do un’occhiata»
«Perfetto, grazie».
L’officina è enorme. Simon parcheggia sul montacarichi e Mike, questo è il nome del meccanico, solleva l’auto per lavorare comodo. Una volta resosi conto del danno ci dice quello che deve fare:
«Per aggiustarla ho bisogno dei perni. Il negozio che li vende è a un’ora e mezza da qui. Considerando il viaggio e il tempo che mi ci vorrà di lavoro, ne avrete per cinque ore»
«Per noi va bene»
«Potete tranquillamente aspettare in piscina, con questo caldo un bagno è quello che ci vuole»
«Davvero non è un problema, non vorremmo approfittare»
«State sereni, siete miei ospiti».
Ringrazio di cuore. Anche se dentro di me ho paura che il conto finale sarà salato. Tiriamo fuori pantaloncini e asciugamani dalle valigie e facciamo il nostro ingresso nella meravigliosa piscina. Ci accolgono due signore che evidentemente sono state avvertite da Mike mentre ci cambiavamo. Entrambe tondeggianti nei loro costumi interi a fiori, si presentano: sono Margareth e Giudy. Cordiali, disponibili e sorridenti. Personalmente sono sempre diffidente verso l’eccessiva cordialità, nasconde quasi sempre secondi fini. La città dove vivo ne è un esempio continuo: se a New York qualcuno si mostra troppo disponibile e accomodante, vuol dire che ti sta derubando. Al contrario, qui sembra faccia parte del loro dna. E’ genuina, non premeditata. Margareth ci fa da cicerone. La casetta di legno ospita gli spogliatoi e un piccolo bar con sandwich e bevande dissetanti i cui ricavi servono per la manutenzione della piscina. C’è anche un telefono che siamo liberi di usare se dobbiamo avvertire qualcuno. Lettini e sedie sono disseminati ovunque senza un ordine particolare:
«Potete mettervi dove volete. Rilassatevi e qualsiasi cosa vi serva, basta chiedere. Mike è un bravo meccanico, ma sui tempi non è molto affidabile».
In realtà io ho delle domande che mi frullano in testa, colgo la palla al balzo per fargliele:
«Scusi Margareth spero di non essere invadente, ma tutti questi ragazzi da dove arrivano? Non vedo case qui intorno, e da dove veniamo c’è solo deserto. E questa piscina?».
Margareth scoppia a ridere:
«La comunità di Kingstown è abbastanza grande. Le case ci sono, con tutto questo spazio perché costruirle attaccate? La piscina è stata un’idea per creare un punto di aggregazione per i giovani. E poi, ragazzo mio, il deserto nasconde mille sorprese, a volte i miraggi sono più concreti della realtà».
Pronunciate queste parole, Margareth si congeda con un’espressione soddisfatta. Io ripenso alla frase finale. Simon, cha ha ascoltato la conversazione già comodamente disteso su un lettino, spezza i miei pensieri:
«Enigmatica la signora eh?»
«Mica saremo già morti?»
«Si, e questo è il paradiso. Un po’ arido, ma decisamente comodo e accogliente. Invece di dire cazzate, vai a vedere che offre da mangiare il bar paradisiaco»
«In effetti per essere il paradiso, fa un caldo infernale. Se poi anche da morto mi tocca sentire le tue battute ironiche, allora sono davvero finito all’inferno»
«Purgatorio amico mio, e io sono la purga».
Ecco, appunto. Mi avvicino al bar, ma ho la sensazione di essere osservato. I bambini hanno fatto gruppo intorno a un tavolino. Non mi perdono di vista e confabulano a bassa voce. Se questo è l’inferno, loro sono i diavoletti e si stanno accordando su quali torture subirò. Al bar trovo Giudy:
«Affamato?»
«Direi di si, che c’è nel menu?»
«Hamburger, Hot Dog, Club Sandwich»
«Due hamburgers perfavore»
«Da bere?»
«Due lattine di coca cola»
«Perfetto, il tempo di preparare i panini».
Mentre aspetto mi cade l’occhio sul telefono. Se sono morto di certo non posso telefonare. Non si è mai sentito di uno che chiama dopo essere deceduto. Non è come quando ti arrestano, che hai diritto a una telefonata. Quando muori, muori. Punto e basta. Non hai diritto a un bel niente. Giudy è sparita in cucina. Mi guardo intorno e, oltre ai potenziali diavoletti, vedo un gruppo di ragazzi più grandi. Mi avvicino a una di loro:
«Ciao, è possibile usare il telefono?»
«Ciao, dipende da dove devi chiamare»
«Los Angeles?»
«Si, accomodati pure»
«Grazie!».
Allora sono vivo! Mi precipito all’apparecchio e digito il numero di mio fratello. Vive in California da anni. Il numero è libero ma non risponde nessuno, neanche la segreteria telefonica. Cosa abbastanza strana. Lui è un maniaco: quando ho preso casa a New York me l’ha fatta comprare sotto minaccia. A suo avviso è inaccettabile chiamare qualcuno e non ricevere risposta. Un brivido mi corre lungo la schiena. Provo subito a chiamare casa di mia madre. Mi risponde la segreteria. Quando arriva il momento di lasciare il messaggio, sento una serie di bip ravvicinati e cade la linea. Significa che la macchina è piena.
«Ma cos’è uno scherzo?»
«Hey che succede?», Giudy è sbucata dalla cucina con i panini in mano.
«No niente, non riesco a contattare nessuno»
«I panini sono caldi, puoi riprovare dopo»
«Certo, quanto le devo?»
«Cinque dollari»
«Solo?»
«E’ poco?»
«In città ci sono altri prezzi»
«Qui il cibo, soprattutto la carne costa poco».
Pago e prendo panini e bevande. Arrivo trafelato da Simon, che se ne sta sempre sdraiato sul lettino, e sbatto violentemente il piatto con il cibo a terra:
«Qui c’è qualcosa che non va!»
«Cibo di merda?»
«Ho provato a chiamare mio fratello e mia madre ma non rispondono»
«Vuol dire che non ci sono, che c’è di strano?»
«E non risponde neanche la segreteria»
«Rotta?»
«A tutti e due!?»
«Senti non so che paranoie ti stai facendo ma io ho fame».
Si avventa su un panino come un leone sulla preda. Il viso si rilassa in un’espressione di puro piacere. Spinge delicatamente il piatto nella mia direzione e mi fa segno di mangiare. Prendo in mano il panino. A guardarlo sembra perfetto: lattuga, pomodori, hamburger e salse in un mix di meravigliosi colori dentro un pane con sesamo leggermente tostato. Sarebbe da fotografare per quanto rappresenti lo stereotipo dell’hamburger americano. Gli do un morso che affonda dolcemente nella morbida carne cucinata al sangue. Le papille gustative impazziscono di piacere. Non so se dipenda dall’appetito, ma credo sia il più buon panino che abbia mai assaggiato. L’esperienza culinaria cancella momentaneamente le paranoie trascendentali. Mentre lo divoro con accanimento e totale dedizione, ho di nuovo la sensazione di essere osservato. Mi giro con il panino tra i denti. C’è un ragazzino in piedi davanti a me: ha i capelli biondi e mi guarda con i suoi occhioni azzurri spalancati. Mi viene subito in mente un film che da piccolo mi terrorizzava: ‘Il villaggio dei dannati’ di John Carpenter. Dove un gruppo di ragazzini biondi con gli occhi azzurri controllava le menti delle persone attraverso lo sguardo. Rimango pietrificato con il panino in bocca.
«E’ buono vero?»
«Ottimo direi»
«Giudy fa i panini più buoni del mondo! Ma tu di dove sei?»
«New York».
Al bambino brillano gli occhi in un misto di stupore e meraviglia. Quegli sguardi che solo a loro riescono; quelli che sfoderano davanti al regalo desiderato; quelli dettati dall’innocenza, dalla purezza di spirito, dalla sincerità; quelli che rimarresti li ad ammirare per ore e che hanno il potere di cambiare in bella anche la più buia giornata.
«New York...anch’io un giorno andrò a New York»
«Non ci sei mai stato?»
«No, magari. Sono stato qualche volta al camping dopo la scuola in tenda»
«Dove?»
«A Nord sui monti, è bellissimo!»
«E poi sempre qui?»
«Si, a Kingstown si sta veramente bene sai?».
«E che si fa a Kingstown?»
«Per esempio: le gare di tuffi. Io sono bravo»
«Allora facciamo così, finisco di mangiare e poi mi fai vedere»
«Ok!»
Il ragazzino si gira svelto per tornare dagli amici, ma ha un sussulto e torna sui suoi passi:
«Ma tu che ci sei venuto a fare qui?»
«A vedere come ti tuffi».
Scoppia a ridere e corre via. Sto iniziando a scoprire la realtà della provincia americana che non conosco. La semplicità della vita di un bambino il cui sogno nel cassetto è meravigliarsi di fronte alla città dei balocchi, che scoprirà non essere una chimera, mentre il passare del tempo viene scandito dagli schizzi d’acqua dei suoi tuffi e dal contatto con la natura nel campeggio con gli amici. Natura a cui probabilmente tornerà, dopo aver assaporato l’inutile delirio delle formiche impazzite che corrono senza meta tra tonnellate di cemento. Quel delirio che per chi ci è nato rappresenta la scontata normalità da cui forse vorrebbe fuggire. Alla fine dei conti, quasi invidio la sua esistenza. Lontana e pacifica, senza compromessi.
L’effetto del connubio panino meraviglioso-bambino curioso mi ha messo definitivamente di buon umore. Simon se ne accorge:
«Gara di tuffi eh?»
«Come si può non essere coinvolti da un bambino così»
«E la morte, il paradiso, il purgatorio?»
«E chi se ne frega, tanto se sono morto, sono morto cazzo. Almeno mi diverto!».
Intanto una selva di ragazzini con in testa il biondino, ha circondato il mio lettino:
«Siamo pronti!»
«Wow vi siete moltiplicati, quanti siete?»
«Dodici!»
«Come gli apostoli»
«Sì e tu sei Gesù Cristo», sibila Simon.
«Invece di sfottere, dammi una mano».
Mi alzo in piedi sul lettino e inizio lo show, con i piccoli che mi guardano a bocca aperta:
«Allora, la gara di tuffi è ufficialmente aperta e le regole sono queste: tre tuffi a testa. Il primo classico, di testa; il secondo un’acrobazia a piacere, una capriola, una piroetta, quello che volete voi; il terzo in freestyle ispirato a un animale, quello che vi piace di più! Io e Simon», mi giro e lo indico «questo è Simon, saremo i giudici. Ora dovete preparare venti pezzi di carta rettangolari che ci scriviamo i numeri per le votazioni! E servono anche un foglio e una penna»
«Ok!», gridano in coro e corrono in cerca della carta. Simon mi guarda esterefatto:
«L’hai già fatto o ti è venuto così?»
«Così all’impronta, ho improvvisato»
«A volte mi spaventi. E io che c’entro?»
«C’entri c’entri, mica si lasciano soli gli amici, soprattutto in mano a un’orda di bambini sovraeccitati. Questi mi sbranano».
La piscina ha preso vita. Quando siamo arrivati non volava una mosca, ora si sentono le grida dei bambini che stanno coinvolgendo anche le signore e i ragazzi un po’ più grandi, che finora ci avevano ignorato. Una volta preparati i foglietti per le votazioni (da 1 a 10) e la lista dei partecipanti, io e Simon ci sediamo sul bordo con i piedi a mollo, mentre l’orda si mette in fila dietro al trampolino. Uno a uno sfilano, mano mano che chiamiamo i nomi, e si esibiscono al loro meglio. Nei tuffi di testa più o meno si equivalgono a parte due: Tommy, il biondino, che è davvero bravo e Michael, un bambino cicciottello con i capelli ricci castani, che è meraviglioso nella sua goffagine. Ci dimostriamo essere giudici buoni e oscilliamo tra il cinque (Michael) e il nove (Tommy). Nei tuffi acrobatici iniziano le prime risate. Tra pseudo capriole e piroette finite in dolorose facciate nell’acqua, fioccano i tre. Si divertono tutti, soprattutto i bambini che hanno capito lo spirito goliardico della competizione. Tommy ci stupisce con una capriola degna di un tuffatore professionista, e rimedia un altro nove. Michael ci intenerisce con un tentativo di capriola condita da uno scivolone sul trampolino e si becca un benevolo cinque. Dal comportamento degli altri, capisco che è il più deriso. Il classico bambino che subisce la sua condizione di inferiorità, elevata all’ennesima potenza dagli atteggiamenti dei suoi coetanei. Non amo le ingiustizie, non le ho mai amate. Esce dall’acqua e mi passa vicino a testa bassa.
«Sei stato bravo! Adesso fammi vedere che sai fare imitando un animale, forza!».
Abbozza un timido sorriso e si dirige verso il trampolino. Mentre ci prepariamo a dare il via all’ultima manche, si avvicina Giudy:
«Se vuoi puoi riprovare a chiamare»
«Grazie ma non importa, non devo avvertire nessuno»
«Grazie a te per quello che stai facendo, era tanto che non si divertivano così»
«Anch’io Giudy, te lo assicuro».
Mio padre era morto da poco tempo. Anche se cercavo di non pensarci, il dolore della sua scomparsa mi accompagnava costantemente, come la mia ombra sul terreno. Un dolore lancinante con cui avrei convissuto per anni.
I tuffi animaleschi sono la vera attrazione della gara. Non vedevo l’ora di arrivarci. Le imitazioni si susseguono incessanti: il puma, il ragno del deserto (più simile a una rana), il serpente a sonagli, l’avvoltoio, l’aquila, il coyote, il bisonte, lo scorpione. Arriva il turno di Michael che annuncia il suo: l’armadillo.
Lo guardo concentrarsi, prendere la rincorsa e balzare dal trampolino tutto rannicchiato in un tuffo a bomba che, visto l’abbondante peso, alza una muraglia d’acqua che ci investe come uno tsunami. Quando riemerge si volta verso di noi, zuppi, in attesa del verdetto:
«E questo sarebbe l’armadillo?»
«Si, quando si chiude per difendersi e diventa una palla».
Io e Simon ci guardiamo e scoppiamo in una fragorosa risata. Punteggio: due dieci con applauso. Tutta la piscina ride e applaude. Michael è paonazzo di vergogna ma felice. Alza le braccia in segno di vittoria. Alla fine il vincitore della gara è Tommy, ma grazie all’armadillo, Michael si piazza al terzo posto. Ci buttiamo tutti in acqua nel delirio generale. In realtà hanno vinto tutti, e l’hanno capito anche i partecipanti, e forse il piccolo cicciottello d’ora in poi avrà più fiducia in se stesso, almeno lo spero. Nel frattempo è tornato Mike che ci chiama perché la macchina è pronta. Ci asciughiamo e lo raggiungiamo nell’officina. I due perni mancanti sono di nuovo al loro posto. Per di più ha aggiustato la ruota forata. Non è riuscito a trovarne un’altra uguale, ci consiglia di farlo quando arriveremo nella prima grande città. E’ il momento di pagare e mi aspetto la batosta:
«Quanto ti dobbiamo?»
«Venti dollari sono troppi?».
Lo guardo sconcertato. Ero pronto a sborsare duecento dollari con grande naturalezza. Sarebbe stato anche un prezzo vantaggioso. Prendo il portafogli e gli metto in mano cento dollari. Adesso è lui a mostrare sorpresa:
«Non posso accettare, sono troppi»
Gli prendo la mano e la chiudo con i soldi dentro:
«Senti Mike, forse non hai capito ma ci hai salvato la vita. Dopo tutto il lavoro e la splendida giornata che ci hai fatto passare, questo è il minimo insindacabile. Grazie, davvero».
Torniamo in piscina a prendere le nostre cose e a salutare prima di rimetterci in marcia. Margareth e Giudy ci baciano e ci augurano buon viaggio. I ragazzi ci ringraziano e ci pregano di tornare a trovarli. Sto per rientrare nell’officina quando mi sento tirare la maglietta. Mi giro e davanti a me c’è Michael che alza le braccia. Mi inginocchio alla sua altezza e mi abbraccia forte senza dire una parola, per poi scappare via verso gli altri ragazzi. Scappo anch’io prima di commuovermi. Passiamo davanti alla piscina e li troviamo schierati dietro la rete per l’ultimo saluto. Imbocchiamo la strada per rientrare nella satale, mentre le possenti rocce che la costeggiano nascondono la piscina, l’hangar, la casa e il bar. E’ quasi il tramonto e l’aria si fa più fresca. Sono nella stessa posizione di quando siamo arrivati, con i piedi appoggiati sullo specchietto retrovisore. La tanica dell’acqua è piena. Lancio un’occhiata furtiva in alto in cerca dell’aquila, che non c’è. Senza staccare gli occhi dalla strada, Simon rompe il silenzio:
«Lo sai che se torniamo indietro non c’è più niente?»
«E’ probabile, ma non ha importanza. A volte un miraggio è più concreto della realtà».

mercoledì 3 agosto 2011

Numana estate 2011/4

Finalmente è arrivato il sole. Dopo due settimane autunnali, sia come tempo che come temperatura – giornate passate chiuso in casa con doppia felpa mentre fuori imperversava la bufera con quindici gradi – mi sono potuto dedicare con impegno alla faticosa opera di giacere bello spaparanzato al sole. Immobile e rilassato, quasi morto direi, mi sono arrostito a puntino. Incurante dei continui consigli di zie e cugine:
«Mettiti la crema protettiva che sei già tutto rosso, così finirai per bruciarti».
Io mi voglio bruciare. Pretendo di tornare a casa nero come il mio assistente. Se devo passare per bruciature e ‘peeling solare’ benvenga, sono pronto.
Mio malgrado, vengo coinvolto nel gossip legato ai settimanali dedicati che la fanno da padroni:«Ma quant’è bella Ilary Blasi? Si, perché la donna di Ronaldo?».
Mi presto volentieri. Anche perché guai a chi parla male della moglie del ‘Capitano’!
Intanto Tommy continua nella sua febbrile pesca quotidiana, tornando sempre incazzato per qualche motivo.
«Ho pescato i gamberetti e me l’hanno fatti tagliare a pezzi per usarli come esca»
«E allora?»
«E poi non li hanno usati»
«Va bene, dai»
«Va bene un cazzo! Quelli erano vivi e ora sono morti».
Tommy è un pescatore animalsta. Prende i pesci, ce li fa vedere e poi li ributta in mare. Odia le uccisoni gratuite degli animali, salvo augurare la morte a chiunque gli impedisca di andare a pesca. Spazzerebbe via l’intero genere umano senza distinzioni di parentela e senza il minimo rimorso.
Sono andato a mangiare da Alvaro alla Torre. Uno dei più buoni ristoranti di pesce di Numana. Ho dovuto parcheggiare il furgone fuori dal paese, perché è iniziata una settimana di spettacoli di piazza. Dalle venti alle ventiquattro è tutta zona pedonale. Questa sera è la volta di un terrificante concerto per fisarmoniche. Il palco è gremito di fisarmonicisti. Immaginate lo schieramento di una filarmonica, composta da venti fisarmoniche, un basso e una batteria. La piazzetta di Numana è piena fino all’orlo. Tutti comodamente seduti sulla schiera di sedie ordinatamente piazzate per l’occasione. Riesco a passare indenne nell’unico passaggio lasciato libero e, nonostante gli incontri parentali che mi rallentano, riesco anche a non sentire una nota. Tempo fa ho letto una freddura che recitava così:«Un vero gentiluomo è quella persona che sa suonare la fisarmonica, ma non lo fa».
La verità è che pur non amando particolarmente lo strumento, in certe musiche popolari ci sta decisamente bene. Il concerto però, preferisco evitarlo.
Alvaro è pieno. Questa volta sono stato previdente e ho prenotato. Mi accoglie cordialmente, non siamo amici ma ci conosciamo da sempre. Sono con mia cugina Monica e il mio immancabile assistente Nilushe. Fortunato, perché si sta godendo delle cene davvero prelibate. Con Monica abbiamo deciso di non badare alla linea e di mangiarci l’impossibile. Cosa che in realtà stiamo facendo da due settimane. Qualche rara volta ci controlliamo a pranzo, ma le cene ci lasciano boccheggianti e storditi come cuccioli dopo una poppata. Ci destreggiamo tra i mille antipastini di mare: moscardini e lattarini fritti, scampetti, salmone, cozze, vongole, capesante al gratin, insalatine varie di calamari e gamberetti. Il tutto logicamente annaffiato da un ottimo Muller Thurgau freddissimo. Per poi passare a una mega frittura di scamponi e calamari, che solo a ripensarci ci riandrei ora. Mentre ci godiamo il succulento pasto, non possiamo fare a meno di sentire i discorsi di una giovane coppia seduta accanto. Più che i discorsi, le cazzate che escono dalla bocca di lui. Capiamo che è in procinto di essere lasciato, e sta facendo d tutto per evitare che accada. Il risultato, se avesse davanti una ragazza con un minimo di cervello, sarebbe l’esatto opposto. Arriva il cameriere e lui parte con la prima malaugurata frase:
«Quant’è bella la mia ragazza eh?»
«Dai smettila», interviene subito lei.
«Ma io vorrei che dicesse sinceramente cosa pensa».
Il cameriere tace saggiamente. Anche perché, a essere sinceri, non siamo di fronte alla Venere di Milo. Dopo un po’ arriva la seconda:
«Ma tu mi vuoi bene?»
«Si certo...», bugiarda.
«Ma davvero mi vuoi bene, sei sicura?».
A questo punto, fossi stato in lei, mi sarei alzato, gli avrei urlato in faccia la verità e me ne sarei andato. Purtroppo non è successo.
Finita la cena, con l’andatura dei trichechi, ci siamo diretti verso la piazza. Le fisarmoniche tuonavano ancora imperterrite, lanciandosi in assoli dalle mille note su ritmiche da ballo di paese, davanti a una platea immobile e forse anche un po’ scioccata. Siamo passati da una via che costeggia la piazza dietro al palazzo del comune, ascoltando due pezzi praticamente identici. Mi sono fermato due minuti dai miei amici della gelateria Morelli, per due chiacchiere e un amaro. Anche loro devastati dalla violenza delle fisarmoniche.
«Hai capito perché vogliamo vendere tutto? Non se ne può più!».
Siamo scappati verso il furgone, passando per la via dove gli artisti numanesi espongono i loro quadri. Gli stessi da anni, come le bancarelle. Se non li vendono, ci sarà pure un motivo? Ma loro non sembrano curarsene. Stanno seduti da una parte, fumano e parlano. E il tempo scorre, sul pianeta Numana...

mercoledì 27 luglio 2011

Numana estate 2011/3

Non sto scrivendo perché in realtà c’è poco da raccontare. Il tempo è brutto e fa freddo come d’inverno. Le uscite e le giornate di mare, assai limitate. Tuttavia qualche piccolo evento degno di nota posso riportarlo.
Il primo riguarda il piccolo Tommy/Danni, che è felicemente rimasto il bambino ‘vivace’ dello scorso anno. Il suo unico interesse compulsivo è la pesca. E’ super attrezzato con retini, lenze, togne, ami di ogni tipo e una compagna senza la quale non si muove: una bambina più grande di lui con la stessa passione. Qualche giorno fa il connubio è saltato perché lei non aveva voglia. Non l’avesse mai fatto. Tommy è partito in un capriccio/lamento da tragedia greca, piangendo e inveendo con anatemi di morte:
«Per colpa sua non posso andare a pescare, magari muore!».
Un signore e suo figlio, pescatori anche loro, si sono offerti di portarlo. Ma lui niente, ha continuato sulla sua linea intransigente: senza di lei non vado. Dopo una ventina di minuti di tragicommedia mia cugina Maddalena, madre del piccolo estremista – spazientita fino al midollo – gli ha dato l’out out:
«Se vuoi pescare vai con loro, altrimenti smettila di frignare e stai zitto», rincarando la dose «e complimenti per la bella figura da piagnone che stai facendo davanti a tutti».
A questo punto i freni inibitori dell’anfant terrible, già ampiamente scarsi, si sono abbattuti sulla madre con la violenza delle cascate del Niagara:
«Perché ho una madre che deve morire! Hai capito, devi morire!».
E la madre ha risposto con la stessa violenza. L’ha preso per un braccio, gli ha rifilato quattro sganassoni e l’ha chiuso in cabina in temporaneo isolamento. Sotto gli occhi atterriti di qualche spiaggiante, distratto dal tranquillo bagno di sole dai rumorosi colpi e dalle urla della cugina, ora visibilmente alterata.
Dopo il trattamento, il piccolo Tommy è effettivamente tornato mansueto. Questa la spiegazione della mamma:
«Mio figlio ha due neuroni che girano nello stesso verso. Ogni tanto uno gira da una parte e l’altro dalla parte opposta. Tre o quattro ceffoni bastano per rimetterli sulla stessa carreggiata. Purtroppo sono due, e due rimangono». Non fa una piega.
Ieri sono andato, insieme a Monica e all’amico Teo, a Offagna, un delizioso paesino dell’entroterra marchigiano dove si svolge una settimana di festa ispirata al medioevo. Il centro storico del paese è davvero di stampo medievale, con alte mura sia lungo il perimetro che all’interno, e una meravigliosa torre all’apice. Tutto egregiamente mantenuto. Per l’occasione il paese si divide in contrade che si affrontano in duelli di spada e tiro con archi e balestre, il tutto condito da travestimenti in stile: priori, re, regine, damigelle, giullari, giocolieri e mangiafuoco. Bande musicali si aggirano tra i viali suonando, presumo, le hit in voga a quei tempi. Un misto di cornamuse e percussioni piacevoli e interessanti. Una coreografia studiata nei particolari che riesce nell’intento di trasportare il visitatore indietro nel tempo. Siamo arrivati a combattimenti finiti, deliziandoci però col vino offerto dalla contrada vincitrice. Uniche due note stonate: l’assenza di una mega brace con maiale allo spiedo e cacciagione tipo Asterix, che sinceramente mi aspettavo di trovare; l’unica rappresentazione che siamo riusciti a vedere, fatta da un gruppo di ragazzi di Jesi (la compagnia Avalon...). Con tristi combattimenti tra cavalieri, arbitrati da un tristissimo Re e accompagnati da uno squallido voice over che spiegava l’uso delle armi, la passione e il sacrificio settimanale che impiegano nello studio storico e nelle tecniche di combattimento. I miei nipoti di dodici e tredici anni avrebbero offerto uno spettacolo spadaccino molto più spettacolare, senza impegno settimanale.
Dopo un giro di bancarelle (queste si spettacolari, altro che quelle di Numana) e un incontro ravvicinato con due Poiane di Harris (rapaci tipo Falco), trasportate in mano dai padroni (poianieri?), ce ne siamo tornati a casa. Mediamente soddisfatti.
Da Numana, in una giornata fredda e piovosa, è tutto per ora.

domenica 17 luglio 2011

Numana estate 2011/2

Tornando da una splendida giornata di mare, ho letto un'indicazione che recitava così:''Panificio aggiornato del Conero''.
Uno spaventoso mix tra analogico e digitale. Come si fa ad aggiornare un panificio? Di che versione si tratterà? Trattasi forse di panificio 2.0? Vendono pane o chiavette usb con sole immagini? Sarà una nuova forma di commercio, il pane te lo scarichi direttamente da casa...
Domani vado a controllare.
Ieri ho cenato dai miei zii preferiti, Irma e Maurizio. Che mi hanno accolto felici, con una teglia di pomodorini al gratin. Che io, altrettanto felicemente, ho divorato a quattro ganasce. Con l'occasione ho scoperto che mio zio, sostenitore Pdl, ha iniziato a parlare nel sonno. Mia zia gli ha nitidamente sentito intonare:''Bandiera rossa la trionferà...''. Il vento sta cambiando davvero!
Dopo cena ho fatto un giretto in piazza insieme alla mia cugina/sorella Monica. E' incredibile che da trent'anni a questa parte ci siano le stesse bancarelle con gli stessi oggetti in vendita. Ancora più incredibile è che io le costeggi una per una e, a volte, compri anche qualcosa. Recidivo fino al midollo.
Attirati dalla voce di un presentatore e tirati da Hobbs, il cane di Monica, ci siamo spinti fino ai giardinetti. Dove un nutrito pubblico numanese assisteva a una sfilata di moda: ''Numana Sfila 2011''. Siamo arrivati al culmine dell'evento dove, a modelle e modelli schierati in fila sul palco - richiamato dall'agghiacciante presentatore, faceva il suo davvero poco acclamato ingresso il sindaco in persona. Che era molto fiero che l'evento si svolgesse proprio nel centocinquantesimo anno dell'unità d'Italia. Sono ventiquattro ore che cerco di trovare la più piccola particella di nesso tra le due cose, senza successo. Qualcuno di voi può aiutarmi nell'impresa?

venerdì 15 luglio 2011

Numana estate 2011

Il figlio di nove mesi del mio assistente è seduto sul suo seggiolino da viaggio accanto a me.
Mi guarda.
Sto leggendo il giornale, mentre viaggiamo spediti verso le meritate vacanze. Nilushe (il mio assistente) ha il potere innato di cambiare stazione radiofonica ogni volta che inizia un pezzo decente, per sintonizzarsi compiaciuto su musiche che farebbero rabbrividire un morto. Dopo una serie di cambi improbabili (la parola preferita di Martina), decide di mettere la sua chiavetta usb personale. Al terzo pezzo stile Bollywood (riesco anche a immaginare i balletti coreografati) mi parte in automatico la minaccia:
«O cambi o ti licenzio».
Cambia. Infilato nello stereo, giacie inascoltato da mesi ‘Ten’ dei Pearl Jam. Non sarà il massimo, ma è di sicuro meglio di Bollywood. Mi giro verso il piccoletto.
Mi guarda ancora. Credo mi stia studiando ma non capisco perché.
L’autostrada è semivuota. In compenso, durante una breve sosta per aggiustare il seggiolino del guardone, il furgone si è popolato di mosche. Piccole fastidiose mosche che non ne vogliono sapere di abbandonare il mezzo nonostante i quattro finestrini spalancati. All’interno del veicolo c’è l’equivalente di un tornado, che non sembra infastidirle più di tanto.
Sento tirare il giornale. E’ Iuran (il nove mesenne) che mi guarda felice attaccato con entrambe le manine alla prima pagina de ‘Il Fatto’. Ecco qual’era l’obbiettivo di tanto studio. Gliela cedo, magari gli piace Travaglio. In realtà vuole solo distruggerla, e lo fa divertendosi come un matto. Alla fine, pagina dopo pagina, gli cedo tutto il giornale. E lui, felicemente, lo distrugge. Atto simbolico?
Arriviamo a destinazione davvero velocemente. Cosa che quando guida Nilushe non avviene mai. Proprio quando Iuran ha deciso che non ne può più di stare seduto in macchina, manifestandolo con urla e un caotico lancio di oggetti contundenti: due paia di occhiali, un orologio, un lecca lecca di plastica, un pettine, un bambolotto nero che pronuncia una serie di frasi incomprensibili e un ‘Nemo’ di peluche.
La casa è meravigliosa, il giardino ancora di più. Un piccolo paradiso dove tira anche un po’ di vento. C’è il maestrale in paradiso?
Trovo la vicina che smadonna perché il marito è uscito e lei, non avendo le chiavi, non può mettere gelato e surgelati nel frigo. Le offro temporaneamente il mio, tanto è ancora vuoto, anche perché questo gesto mi potrebbe salvare l’estate da noiose proteste contro cani e musica alta.
Vi lascio mentre un enorme sole rosso si va a nascondere dietro le colline, e io stappo una bottiglia di Verdicchio freddissimo accompagnata da ciauscolo, lonzino, pomodori secchi e pecorino fresco.
Da Numana passo e chiudo, per ora.

martedì 12 luglio 2011

Lo so che sembra brutto il fatto che prenda molto spesso di mira la mia povera mamma, ma che ci posso fare se mi serve materiale in continuazione? Per esempio...
Ieri è stata in ospedale a farsi incidere un brutto ascesso dovuto, probabilmente, al morso di un tarlo. Che il tarlo morda è un fatto risaputo, altrimenti come farebbe a mangiarsi il legno? Che morda anche gli esseri umani provocando ascessi purulenti, è la prima volta che mi capita di sentirlo (tra l'altro deve avere una gran bella mascella il tarlo). Di risaputo c'è anche il fatto che i racconti di mia madre sono un abile misto di fiction e realtà. Quindi da prendere con le molle. Ma non è la veridicità o meno del racconto a pretendere un posto d'onore in questo post (posto/post: meraviglioso!). Bensì il dovere che la santa donna si impone, di rendere tutto il condominio partecipe dell'accaduto. Scendendo fino ai più orridi particolari. Senza distinguo di età: dai venti in su (almeno non traumatizza i bambini).
Un esempio che li racchiude tutti:
«Ciao Milvia, come stai?»
«Male, mi è venuto un ascesso e me lo hanno inciso», l'ignaro malcapitato non sa cosa lo aspetta e le da spago.
«Davvero? Mi dispiace, dove?»
«Guarda, qui sulla pancia», mostra un impacco di garze sanguinolento «ha buttato una quantità industriale di pus, e pensa ci sono ancora tre sacche che devono aprirsi. Ci sto mettendo acqua e sale per agevolare l'uscita e, ogni tanto, lo spremo. Avvicinati che ti faccio vedere».
A questo punto il povero condomino, nella maggior parte dei casi, riesce con qualche scusa estemporanea a districarsi dalla morsa dell'anaconda e ad evitare la nauseante vista. In quel momento provo invidia allo stato puro: a me l'orrifica visione tocca tre volte al giorno, senza possibilità di scampo. Se qualcuno fosse interessato a dare un'occhiata, basta chiedere...

lunedì 11 luglio 2011

Mi è appena arrivata una mail con la promozione di un conta passi.
E' da prendere come un augurio o una presa per il culo?

lunedì 4 luglio 2011

La Febbra 2

Si, ho di nuovo la febbre. Trentotto e mezzo. Questa volta ci ha pensato il figlioletto di Nilushe. Otto mesi di dolcezza e batteri micidiali. Ora capisco mio fratello. Quando i figli erano piccoli, si passavano febbri e bronchiti in continuazione. Un lazzaretto. Io di certo non ho opposto resistenza: ieri sera sono andato al Contestaccio, il locale del mio caro amico Lello (due metri d’altezza per uno di larghezza), che festeggiava il suo quarantesimo compleanno. Ha lasciato che mi attaccassi ripetutamente al suo personale bottiglione da 5 lt. di Champagne, mentre con grande nostalgia e un mucchio di ricordi, ascoltavamo ‘Il Bove’ esibirsi con la sua storica band: gli Ottohm. Pezzi reggae e rock che variano dall’impegno sociale alla ballata d’amore. Pezzi che fanno parte del mio dna.
Quindi oggi sono stato un cadavere con un orrendo hangover. Che alla fine è sfociato in brividi e febbre. Tra il bimbo infetto e le mie difese immunitarie alcolizzate, il batterio ha ringraziato e ha fatto un carpiato in scioltezza dentro al mio corpo. Ma non è per raccontarvi la serata che sono qui. Approfitto dello stato febbrile per riportare delle notizie che mi hanno stuzzicato.

La prima:
Il Ministro Tremonti e la Ministra Gelmini, hanno avuto un’idea folgorante e non hanno perso tempo a esporla. Per recuperare soldi dalla piaga dei finti invalidi, hanno deciso di mandare ispettori dell’inps nelle scuole a controllare se tra i bimbi si nascondono dei normodotati che ci marciano...(ho messo i puntini perché voglio che riflettiate un minuto su quello che avete appena letto).
Una frase di questo genere, non solo non andrebbe detta, ma non dovrebbe neanche rimbalzare tra le sinapsi cerebrali. Dei bambini che si improvvisano paralizzati, autistici e chi più ne ha più ne metta, per ricevere assistenza economica. Con la collusione di insegnanti che a fronte di un obolo, fanno finta di non vedere; e quella degli altri bambini che coprono il malfattore, magari in cambio di qualche merendina.
Vi state rendendo conto di che menti abbiamo davanti? Io lo trovo tra il grottesco e l’allucinante. Vorrei chiedere ai due geni che droga usano. Perché dentro di me spero che siano fatti. Una persona con un barlume di logica, avrebbe cacciato via il pensiero all’istante dandosi del coglione. I due Ministri no.

La seconda:
Siamo nel Trentino, precisamente a Imer. La Lega ,nella persona dell’ex senatore Enzo Erminio Boso, ha organizzato un insolito banchetto a base di bistecche d’orso. Si, avete capito bene: Orso. Quello protagonista di documentari, di film, di cartoni animati. L’orso Yogi (quello che andava in moto) e Balooo (quello del Libro della Giungla). Vaneggiando su lignaggi Celti che fanno parte del loro dna. E si sa, le tradizioni celtiche parlano chiaro sulle bistecche d’orso. Chiaramente il popolo animalista è insorto e i Nas hanno bloccato il succulento banchetto: non avete i permessi. In realtà credo sia andata diversamente: tu l’orso non lo mangi, punto.
Per tutta risposta l’ex senatore si è infuriato e ha mandato un chiaro messaggio a Bossi (o a quel che ne resta):
«Chiedo a Bossi di lasciare questa maggioranza».
Ecco Umberto, su questo mi trovo in completa sintonia con Boso. Ma ti pare possibile che a degli omoni di tradizione celtica come voi venga proibita una sana bistecca d’orso? Ma in che razza di paese illiberale viviamo? Molla tutto Umberto, dagli retta al Boso. Così non si può proprio governare. Che caschi il governo per una bistecca d’orso. Già vedo i titoli dei giornali:«Un orso abbatte il premier».

Ho finito. Niente errori questa volta. La febbre è meno alta e le trovate non si ripetono. E poi sto lucio...

Solidarietà ai No-Tav. Forza ragazzi! Reagire alla dittatura!


p.s. Ho scritto questo post mentre era in corso una festa di giovani, in una casa dalla parte opposta della strada. Con volume a cannone, hanno spaziato tra una sorta di techno commerciale, passando per ''I just can't get enough'' cantata dai Depeche Mode (rimessa da capo tre volte di fila), fino ad arrivare a ''Grazie Roma'' di Venditti. Così per informazione.

giovedì 30 giugno 2011

Mia madre:''Vorrei che i miei figli mi chiamassero ogni tanto per sapere se sono viva o morta''
Io:''Noi ti chiamiamo per sapere se sei morta''.
Non ha colto...

venerdì 24 giugno 2011

A Roma.
Capita che sei in mezzo al traffico. Un tipo su uno scooter vuole passare di lato e grida:«Ooh!!».
Il mio assistente si gira e chiede:«Che c'è?».
Il tipo si avvicina, cinquantenne con barba brizzolata e camicia maculata militare:«C'è che voglio passare, spostati!»
«Sono passati dieci motorini, passa»
«Mbè io non ci passo, sposta sto cazzo di furgone».
Intervengo io:«Stai calmo, qual'è il problema?»
«Guidi te? Allora fatti i cazzi tuoi»
«Il furgone è mio quindi sono cazzi miei»
«Guidi te?? Allora non rompere il cazzo!»
«Non ti permettere testa di cazzo e rivolgiti alle persone con rispetto, soprattutto quando hai davanti qualcuno con evidenti difficoltà»
«Non fare il caso umano e levati dal cazzo».
Se ne va mentre gli urlo 'fascio di merda!' a pieni polmoni.
Ecco, questo capita a Roma in mezzo al traffico.
Un bel paese...
Dimenticavo, se a qualcuno interessa ho la targa.

sabato 18 giugno 2011

Per te

Bottiglie vuote risuonano stonate
l'eco delle voci di una festa consumata,
le lacrime spese alla ricerca d'errori mai commessi,
restano sbagli freschi di cui vergognarsi,
annegati in bevande dai colori scuri,
che somigliano a buchi neri e inghiottono i sentimenti,
quelli più puri,
quelli che a guardarli ci si commuove,
quelli che nessuno vede,
neanche chi li prova.
Lasciatemi dormire allora,
lasciatemi vivere la mia scelta di solitudine,
e lasciatemi provare un sentimento che rimarrà soltanto mio.

mercoledì 15 giugno 2011

Mentre cerco umilmente di raccogliere la concentrazione necessaria per scrivere due righe due, sento mia madre che si aggira avanti e indietro nel giardino condominiale scarrozzando il figlio di otto mesi del mio assistente e ripetendogli in una cantilena che somiglia a un mantra orientale:«Camminare, correre, camminare, correre».
Il mio cervello rischia l'implosione istantanea, ma il mio preoccupato pensiero va al povero infante. Già il continuo mix cingalese-italiano deve creargli una certa confusione linguistica, ma sottoporlo anche alla tortura mantrica mi sembra davvero troppo. Di questo passo probabilmente chiamerà la mamma ''correre'' e il papà ''camminare''.

Oltretutto oggi hanno ufficialmente aperto la piscina. Neanche si fossero messi d'accordo (impossibile perché la data d'apertura era custodita nell'Area 51 in America), tutti i bambini del quartiere si sono materializzati direttamente nell'acqua. Ho deciso di ritirarmi nel monastero tibetano più vicino. Forse li riuscirò a concludere qualcosa, o almeno pregherò affinché accada...
Buona giornata a tutti!

martedì 7 giugno 2011

Oriente

Voglia d'oriente.
Voglia di lumini a indicare la via attraverso stretti vicoli sabbiosi,
voglia di terra ocra e polveri porpora,
voglia di viaggiare libero cavalcando un proiettile su due ruote,
voglia di strade proibite, bucate, dismesse lungo passi incantati,
terra di animali selvatici, d'occhi sorpresi nascosti in capanne fangose,
voglia di fresco pesce d'oceano, di spezie sconosciute, di torrette sospese nel tempo su cui aspettare l'alba,
voglia di scogliere a strapiombo, di spiagge bianche e di cascate d'acqua dolce dopo un bagno salato,
voglia di sabbia calda e soffice sotto ai piedi e di onde blu cobalto sul corpo,
voglia di frutta in cesti,
di donne scure, anelli, orecchini, collane e vesti,
voglia di reti e pescatori di primo mattino e tarda serata,
voglia di barchini di passaggio a cui attaccarmi mentre nuoto in un mondo liquido che non mi appartiene,
ma che sento così mio,
voglia di sentire il tuo odore e rimanerne estasiato,
e voglia di camminare solo, sedermi davanti al tramonto e incontrare un cane,
e insieme lasciare che il sole svanisca all'orizzonte e svanire con lui,
tu a nord e io a sud,
ognuno per la sua strada.

giovedì 26 maggio 2011

''La febbra''...

Eccomi qua! Sono le 2.25 e ho 39.1 di febbre!
Così per mettere le cose in chiaro subito.
Gli amici che mi seguono sanno bene che mi piace scrivere quando sono nel delirio febbrile. Non perdo occasione per farlo. Oggi però non sto delirando. Mi trema decisamente la mano, ma credo di essere abbastanza lucio. Magari lo penso e basta. Questo si vedrà alla fine, intanto ho deciso di non effettuare correzioni. Vi beccate gli eventuali errori.
Rischio di essere monotono ma sto andando a fuoco cazzo! Utn caldo atroce. Vorrei accendere l'aria condizionsta ma la polmonite mi aspetta a braccia aperte. Perchè il fresco mi riassa e mi addormento, e mi risveglio che sono divetato un cubetyo di ghiaccio.
E mi auto o dell'ombecille, per poi ricascarci dopo mezz'ora. Un genio.
Sto riflettendo sulla morte.
Mica la mia. Quell dei membri della mia famiglia, di alcuni membri, di uno...mia madre. Non so se sia un rigurgito del fatto che in questo periodo è troppo presente. Me la ritrovo intorno in continuazione. Scrivere diventa un utopia (guardate l'ota e le condizioni in cui lo sto facwendo). (ota e facwendo: che meraviglia!). Quindi mi immagino il ritrovamento del cadvere, il dolore, il macello in famiglia. Parenti e amici affranti. Nessuna battaglia sui soldi per fortuna, assenti all'appello. I discorsi in chiesa. Purtroppo si, chiesa. E' credente. Un po' in tutto in realtà. Nel calderone della sua spiritualità cìè spazio per yutti. Dio, la Madonna, Buddha, Sai Baba, Padre Pio, Madre Teresa e pure Quelo (per essere sicuri). Ma non ci perdonerebbe il funerale in un posto che non sia la chiesa. Pensavo a questa che abbiamo nella via di casa, ma a occhio e croce è troppo piccola. Lei ha tanti amici e li vuole tutti a disperarsi per la sua prematura scomparsa. Qualsiasi età abbia raggiunto quanso capiterà il lieto, ups no, triste tristissimo evento.
Si muovomo le parole, come fluttuassero nel mare (si fluttua nel mare?). Il coefferalgan sta facendo effetto. La coseina che ha nella composizione più che altro. In effetti, ora che ci penso, sto un po' fatto.
Sono stato cinque minuti a combattere per aprire una bottigietta d'acqua da mezzo litro, bere e richiuderla senza fradiciare il letto. Ci sono riuscito, ma lo sforzo mi ha fatto rivenire sete. Quando un cane si morde la coda...
Fa caldo e mi bruciao gli occhi. Fa caldo come nel libro di Marquez che ho letto ieri: ''Storia delle mie puttane tristi''. Consigliatomi da Martina (avevo scritto Nartina, ho corretto. Ma è l'unica volta giuro...). Un caldo dove il corpo addormentato della giovane Degaldina suda e si bagna, mentre il vecchio protagonista l'asciuga e le racconta tutto quello che sa, con la dedizione di cui solo il vero amore è dotato. Un amore che vorrei provare anch'io, che non so se ho mai provato. Ora non ricordo.
La scrittura ha cambiato colore, è diventata azzurra. Mi debo preoccupare?
Un bell'azzurro intenso. Non è che nia madre si offende quando leggerà questo post? Mica cvoglio che muoia, mi sembra chiaro. Dicono che se sogni la morte di qualcuno gli allunghi la vita, io ho immaginato/sognato rtutto il funerale. Dovremmo essere coperti da disgrazie. Gli avrò allungato la vita a morte (aha non ho resistito). Ci metterà nella bara a tutti. Adieumonamis!

giovedì 19 maggio 2011

Comparse

Con questa poesia ho partecipato alla terza edizione dell'evento ''Pensieri in Arte''. Un abbraccio Giovanna!



La ragione rincorre emozioni e sentimenti,
dimensioni parallele mai unite
come musiche dissonanti su spartiti armonici

Cammino in precario equilibrio
sul filo che mi tiene in vita,
sospeso fra nuvole dense di pensieri

Mi divido
Mi moltiplico

In una vita che mi appartiene a tratti
in un mondo di cui conosco i confini,
tra una prigione colorata
e un montacarichi che sale dritto all'inferno.

Non trovo pace ne soddisfazione,
pur scaltro e loquace che sia,
in questo diffidente tempo,
maligno avversario sotto molteplici forme
insolenti, insensibili, false.

Mi sottraggo

Al quieto vivere affido poche righe,
e da toro infuriato affronto le mie vite
in mano a sconosciute comparse,
dimenticate ancor prima di apparire.

Anonime entità in anonime vesti
con anonimi trascorsi,
si intrecciano soli i nostri percorsi
senza alternative,
col coraggio di mentire per sopravvivere.

lunedì 16 maggio 2011

Pioggia.
Una pioggia insistente, tenace, convinta come la mia voglia di non esserci.
Di essere altrove. Al di là di un recinto, di uno steccato, di un muro.
Al di là di un confine, di un arcobaleno, di un cielo denso di nubi.
Al di là di un sogno.
Già i sogni, quei mondi confusi di immagini, sensazioni, simboli. Creati dai ricordi ammassati alla rinfusa nel ripostiglio del mio intimo teatro. Che premono per uscire e farsi ammirare anche per un solo attimo. Quei sogni carichi d’ansia, d’incertezza, dove sono vittima di soprusi e schiavitù. Quelli dove sono al servizio di un malvagio, dove combatto e rischio di essere ucciso. Dove fuggo da un pericolo che non conosco. Quelli da cui mi voglio liberare, e succede che invece di svegliarmi, viengo catapultato in un altro sogno che somiglia alla realtà e mi confonde. Quelli dove scopro la bellezza, dove mi ritrovo a volare su una foresta dai colori autunnali, dove qualcuno che ho appena incontrato mi sorride e mi dice di essere contento che io sia ancora vivo.
E poi al risveglio, i pensieri di quei sogni mi fanno compagnia. Cerco una spiegazione, un motivo, una ragione che non trovo mai. Forse perché non voglio trovarla, o forse perché non esiste. Come non esiste il mondo che ho costruito, se non nel mio intimo teatro.
E allora sento qualcosa bruciare nello stomaco. Ho voglia di fuggire, di correre, di vivere realtà diverse. Ho voglia di toccare con mano tutto ciò che esiste davvero. Ho voglia di imparare tutto quello posso. Ho voglia di intraprendere un lungo viaggio, di vivere un’avventura. E ho voglia di incontrare quel sorriso, per sentirmi vivo.

martedì 10 maggio 2011

Ieri sera sono stato al teatro Ambra Jovinelli per assistere al concerto del mio amico Niccolò Fabi. Un concerto che si preannunciava molto particolare perché eseguito da solista, senza l’appoggio della band. Si è sempre titubanti quando si tratta di questo tipo di concerti. Non è facile tenere la giusta tensione per tutta la durata della performance, molto spesso si sente la mancanza degli altri strumenti e, inevitabilmente, si cade nella noia. Il teatro è colmo di gente e il fatto che a esibirsi sia una persona a cui voglio bene, mi incute un po’ di paura. Non voglio vedere volti delusi o annoiati, mi farebbe male. Al contrario, risulterà essere uno di quei concerti che rimangono saldati nell’anima e nel cuore per sempre; quelli che quando ci ripensi, si ripresentano vividi con immagini, colori, profumi, sogni, volti, sorrisi, lacrime, gesti come se non avessero mai fine. Ma andiamo per gradi.
Arrivo al teatro in compagnia di Giulia (amica/sorella) e incontriamo subito Shirin (amica quasi sorella), la compagna di Niccolò, scintillante nel suo meraviglioso outfit di paillettes. Mi consegna il pass e si dilegua presa dai mille impegni pre concerto. Ci uniamo al resto del nutrito gruppo di amici presenti e, dopo un aperitivo a base di campari e biscottini salati al peperoncino – in realtà somigliano ai croccantini dei miei cani, infatti li mangio solo io – entriamo in teatro. I posti sono tutti vicini dietro l’ultima fila su una sorta di palchetto rialzato, vicino all’entrata. In questo caso sono il fortunato possessore di una ‘poltrona mobile’, quindi si presume che possa stare un po’ dove mi pare. Arriva subito un’addetta ai posti per dirmi che mi devo spostare più giù (si presume, appunto), sul lato corridoio destro per intenderci, per ragioni di sicurezza:
«Sa in caso di incendio, intralcerebbe la strada».
Il corridoio è stretto, mentre io sono nell’angolo vicino al muro di una piazza d’armi. Lo faccio presente:
«Mi sa che rischio di intralciare più li che qui, e vorrei vedere il concerto con i miei amici»
«Mi dispiace, ordini della direttrice»
«Ci parlo io con la direttrice, dov’è?»
«Un momento».
Alla fine grazie alla mediazione pacifica di un amico, senza le mie ormai famose piazzate, rimango dove sono. Le luci si spengono e si apre il sipario.
Luci soffuse su una scenografia fatta di: un piccolo divano, un’abajour, due chitarre acustiche (una dodici corde), una semiacustica, un piccolo amplificatore su un mobiletto, uno specchio, una tastiera con seggiolino bianco, una tastierina su una lampada bluastra, tre microfoni, un tamburello con pedale da grancassa incorporato e due palloncini che fluttuano in aria legati al palco.
Entra Niccolò sotto uno scrosciante applauso e prende parola. Prima spiegando quanto sia difficile per un cantautore romano esibirsi nella sua città, per quanto si cerchi di renderlo un concerto come gli altri, non lo è. Lo paragona al derby calcistico tra Roma e Lazio: per quanto gli allenatori si sforzino di farlo passare come una normale partita di campionato, sappiamo tutti che non lo è (mai paragone fu più azzeccato). Poi introduce lo show che vuole essere un viaggio, un affaccio sulla scatola teatrale con le sue regole e le sue libertà, un racconto con la sua linea narrativa. E spera che ci lasceremo condurre in questo mondo privo di barriere e inibizioni.
Inizia il concerto.
Dopo il primo pezzo di scioglimento psicofisico dall’una e dall’altra parte, almeno per quanto mi riguarda, ha inizio un percorso su una strada sconosciuta ma accogliente, sulle prime pagine di un romanzo che ti rapisce, su una rappresentazione teatrale fatta di gesti e movimenti accattivanti. Un meraviglioso connubio di musica, poesia, teatro, sensazioni, pensieri, amore, libertà. La band viene sostituita da loop creati ad arte sul momento, che accompagnano i ritornelli di alcune canzoni. Il fatto che non ci sia la rende ancora più presente, come le persone di cui senti più forte presenza proprio quando non ci sono (sagge parole di Niccolò). Tra un pezzo e l’altro, a intervalli non regolari, Niccolò toglie un oggetto sempre accompagnando il movimento con una musica e lo congeda con dei gesti come se fosse un ospite dopo la sua performance. La gente applaude e capisce. Inizia ad affezionarsi agli oggetti, canta le canzoni. Anche gli strumenti vengono omaggiati da gesti d’entrata e d’uscita come fossero i membri del gruppo, e lo sono. Dopo un’ora e mezza di concerto, passata come un minuto, non mi sento sazio. E neanche il pubblico. L’ultimo oggetto a lasciare il palco è il tamburello/grancassa. E’ qui che la magia prende forma: la gente grida un no corale. Un no che significa non finire questo viaggio, non chiudere il libro, non abbassare il sipario! No! Vogliamo continuare!
Per il gran finale scandito dal famoso pezzo di Mina ‘Parole Parole’, rimangono sul palco Niccolò, la sua chitarra acustica e Lulù sottoforma di palloncini. I prolungati applausi fanno il resto.
Pochi giorni prima del concerto ho incontrato Niccolò e abbiamo parlato dello spettacolo. Aveva paura che l’impegno nella parte ‘meccanica’ (loops, vari strumenti, scenografia) avrebbe tolto profondità e poesia all’interpretazione. Ti assicuro amico mio che, al contrario, ne ha aggiunta e ha lasciato il segno.
E’ stato un bellissimo viaggio. Grazie Niccolò, davvero.

giovedì 21 aprile 2011

Stamattina, mentre ero impegnato in una video chiamata su Skype con un amico che vive a Londra, mi è arrivata una richiesta di aggiunta ai contatti da parte di una certa Irma Donzelli. Ho iniziato a rovistare nei più reconditi anfratti del mio hard disk cerebrale, da cui spesso non vengo adeguatamente assistito (diciamolo...), ma il nome non si associava a nessuna immagine presente. Stavo per rifiutare la richiesta ma, al solito, la curiosità ha avuto il sopravvento:
«Chi sei? Ci conosciamo?»
«Zia Irma, sto sperimentando»
«Ooo Ziaaa!».
Ma certo, la mia zia anconetana preferita! Non ho riconosciuto il suo cognome da nubile, probabilmente non l'ho mai saputo. Per me è stata ed è (fortunatamente) sempre Irma Pennazzi. Che in realtà sarebbe mia cugina di primo grado (acquisita), ma che essendo molto più grande di me, ho chiamato sempre zia (è una lunga storia...).
«Come stai?»
«Sono una somara».
Naturalmente accetto la richiesta e ricevo un'immediata video chiamata. Mio cugino Marco, figlio di Irma, aggiusta i settaggi per attivare la telecamera e le porge la cuffia:
«Eccola, sei diventata un'internauta?»
«Non ce capisco niente»
«Come stai?»
«Bene, se tira avanti. Quando vieni a Numana??»
«Penso in estate, ma non so ancora».
Il ''quando vieni a Numana'' è solitamente seguito dalla richiesta di notizie su tutti i membri della mia famiglia, uno per uno. E infatti anche questa volta immancabilmente arriva:
«E Milvia, Roberta, Franco, Valentina come stanno? Che fanno?».
Riassumo brevemente le condizioni e la posizione geografica attuale e prossima di tutti. Arriva anche la seconda richiesta (immancabile anch'essa):
«Quest'estate devi prendere un pullman e portarli tutti qui!!»
«Ci provo tutti gli anni zia, con scarsi risultati»
«Eh lo so, ognuno c'ha le sue».
«Adesso che sei connessa in rete, ci sentiamo di più»
«Si si, ti chiamo. Certo prima me devo fa scrive le istruzioni come il vangelo, se no chi è capace!?»
«Salutami tutti zia»
«Aspetta ti passo Marco. Marco vieni che ti saluta Lollo!».
Arriva, ma prima di riuscire a parlarci cade la linea. Ricevere la richiesta su Skype e vedere zia con indosso le cuffie davanti al computer parlarmi con l'inconfondibile accento anconetano, mi ha fatto davvero piacere (oltre a farmi ridere). Una zia al passo con i tempi e la tecnologia. Brava! Prossima tappa Facebook!

lunedì 4 aprile 2011

DEMO 3000

Qualche sera fa sono stato invitato alla Rai di via Asiago per assistere alla diretta della tremilesima puntata della trasmissione radiofonica ‘DEMO’. Ideata e condotta dal fantastico duo Michael Pergolani e Renato Marengo, la trasmissione permette a giovani artisti di mandare le proprie canzoni su cd (una volta si trattava di ‘demo tapes’) che, dopo una doverosa cernita, vengono trasmessi alla radio. Un veicolo fantastico per dar voce e pubblicità ai tanti musicisti che non hanno possibilità di farlo in altro modo. Conosco bene il mondo della gavetta musicale perché ne ho fatto parte. Ho mandato cassette e cd a destra e a manca per anni. Molte volte, quasi tutte, sono tornati indietro inascoltati, o non sono tornati affatto (sempre inascoltati), o non hanno avuto riscontro positivo (inascoltati?). E’ davvero frustrante dopo aver passato ore e ore a comporre, registrare e aggiustare brani, sempre con entusiasmo e passione, non avere alcun riscontro, positivo o negativo che sia. Il più delle volte perché non si hanno contatti con il mondo musicale che conta (più che mondo lo definirei girone dantesco). Ma veniamo alla serata.
Sono stato invitato da Michael, amico di una vita e padre acquisito. Ma anche in veste di fornitore del primo demo di ‘DEMO’, con una canzone composta insieme agli amici David Nerattini e Giulio Iraci, per essere la sigla del programma: la ormai famosa ‘Su dai dai’.
Arrivo davanti all’entrata di via Asiago che ha la classica e immancabile lunga scalinata. Un usciere mi prende in consegna e mi porta a un’altra entrata dall’altro lato della strada. Prima di me entra un furgone. Il conducente sta portando le mozzarelle di bufala per il buffet pre trasmissione. Lo scambio di battute tra i due è fantastico:
conducente:«Stanno arrivando due colleghi, devi aspettarli prima di chiudere»
usciere:«Ma io devo portare il signore»
c:«Lo so però io mi devo sbrigare, senza le mozzarelle il buffet non apre»
u:«Ma non possono timbrare sopra?»
c:«Gli ho detto di venire qua, abbi pazienza, le mozzarelle...»
u:«Le dispiace aspettare due minuti?»
io:«Si figuri, le mozzarelle...».
Insomma davanti a uno scatolone di mozzarelle di bufala campana, neanche il disabile ha la precedenza.
Alla fine l’usciere riesce a dirottare i colleghi del conducente all’entrata di sopra e, dopo aver percorso un tunnel sotterraneo degno di un film di Kubrik – con annesse lamentele dell’usciere sullo sciopero dei mezzi e la lontananza tra casa e posto di lavoro - mi ritrovo in un ascensore insieme allo scatolone di mozzarelle. Almeno la soddisfazione di un parimerito.
L’atrio di fronte all’ingresso della sala A è già abbastanza pieno. Vedo Michael ma è impegnato in una fitta conversazione, spero non sulle mozzarelle. La serata si preannuncia ottima. Due ore di musica dal vivo con giovani promesse vincitrici di premi grazie agli eventi organizzati dalla trasmissione, insieme a professionisti che ne sposano la causa e che sono abbastanza umili e sensibili da ricordarsi di quando erano nessuno: Nicolò Fabi, Max Belli, Teresa De Sio, Ron, Francesca Schiavo. Nel frattempo hanno aperto il buffet. Mando il mio assistente a fare rifornimento. Dopo il confronto sulla precedenza ho il diritto di cibarmi delle bufale, una sorta di vendetta. Devo ammettere che sono proprio ottime, aveva ragione il conducente. Prima le mozzarelle!
Appena finito di gustare le specialità sudiste, neanche mi stesse osservando, arriva un altro usciere che mi invita a entrare in sala. Lo seguo come un cagnolino, solo che il genio si limita a zigzagare tra la folla senza farmi strada. Una ragazza si accorge che devo passare e fa spostare dei signori. La guardo. Ha i capelli rossi e gli occhi azzurri, un bellissimo viso e un sorriso dolce. Uno di quei sorrisi che raccontano chi sei, che ti lasciano intravedere l’anima, che ti scaldano il cuore e ti fanno sentire al sicuro, che ti lasciano senza parole anche se saresti pronto a raccontargli tutto, a svelare il tuo più intimo segreto li in quel preciso istante che vorresti durasse in eterno. Ricambio il sorriso e la ringrazio. Forse dovrei seguire l’impulso e fermarmi a parlarle, ma per dirle cosa? Finirebbe tutto in una figuraccia impacciata da film, e la poesia del momento si disintegrerebbe in un secondo. Raggiungo l’usciere che mi fa entrare dalla regia perché c’è da fare una scala meno ripida. In effetti ha ragione. Scesa la scala mi sistemo nell’angolo sinistro della prima fila. C’è Belli che sta provando un medley dei suoi successi, mentre la gente inizia a occupare le poltrone della sala. Scambio due chiacchiere con Michael e Renato che sono contenti e credo anche emozionati. La trasmissione va avanti da quasi dieci anni e continua a avere uno strepitoso successo. Cosa che nessuno dei due si immaginava. Scruto la platea in cerca della ragazza ma non la vedo. Possibile che non sia entrata? Individuo due chiome rosse che però non corrispondono a quella che cerco. Micheal e Renato introducono l’imminente inizio della diretta con un discorso sulla storia del programma. Con mia grande sorpresa e imbarazzo, Michael racconta che il primo dei 40.000 ‘demo’ arrivati in questi anni è stato il mio (nostro David e Giulio...).
Parte la diretta con tanto di sigla eseguita dal vivo dalla band di turno. Mi viene da ridere ripensando a quando l’abbiamo composta e registrata sui primi hard disk recordings in un piccolo studio casalingo, divertendoci come bambini. Giovani talenti (davvero bravi), di cui purtroppo non ricordo i nomi, si susseguono sul palco inframezzati dalle altrettanto belle performance dei già affermati cantanti. Di tanto in tanto mi giro verso il pubblico per cercare la ragazza, ma non c’è. Arriva il momento di una giovane cantante scoperta da ‘DEMO’ che si sta affermando ad altissimi livelli. Vincitrice di tutte le manifestazioni da loro organizzate, nonché trionfatrice dell’ultimo X Factor. Michael e Renato la introducono all’unisono (siparietto in perfetto sync): Nathalie!
Sale sul palco lei! Con la sua chioma rossa, gli occhi azzurri felici e il sorriso dolce. Resto a bocca aperta. Ascolto Micheal raccontare i suoi trascorsi da gipsy in giro per l’Irlanda, con chitarra a tracolla a esibirsi nei pub. Essendo stato fricchettone girovago anch’io (lo sono ancora nell’anima), mi piace ancora di più. Sarebbe giusto provare anche della vergogna (e infatti la provo). Visti i miei trascorsi da musicista e produttore dovrei conoscerla, ma guardo raramente la tv e men che meno i programmi come X Factor o Amici. Anche se capisco che possono essere un trampolino di lancio per i giovani, li trovo repellenti dal punto di vista umano e dal modo in cui viene trattata la musica. Degli zoo in cui i cantanti sono gli animali e i ‘coach’ i domatori con tanto di frusta. Per di più con corredo di giudizio finale in mano a dei mentecatti strapagati per dire cose che non verrebbero in mente neanche a un surrealista come Jodorowsky.
Oltre a essere una bravissima cantante, Nathalie scrive anche dei bellissimi testi.
E non lo dico da infatuato, ma da addetto ai lavori. Passo il resto della serata a cercare di scorgerla dietro la tenda del backstage senza successo. Vorrei raccontarle la mia personalissima gaffe. Forse si divertirebbe a sentirla, e forse finiremmo a farci due chiacchiere al gianicolo guardando Roma. Una di quelle cose che i romani non fanno mai. Più probabilmente penserebbe di avere davanti un disabile matto.
Di tanto in tanto si avvicina l'usciere e mi chiede qualcosa. Queste in sequenza le domande poste:
«Se hai bisogno di qualcosa basta chiedere».
«Se sei stanco me lo dici e andiamo».
«Se te ne vuoi andare basta che me lo dici».
Non ho capito se è cortesia o se è lui che se ne vuole andare e invece è costretto a stare qui per me.
La due ore musicale finisce con un gruppo pugliese di pazzi (questi si...) tipo Balkan Beat Box, con il cantante che mostra gigantografie di Totò, corre per tutta la sala mettendo maschere in faccia al pubblico e alla fine lancia coriandoli. Fantastico! Serata meravigliosa e gran bella musica. Grazie DEMO!! Saluto Michael che mi invita alla prossima manifestazione organizzata dalla trasmissione, a cui andrò sicuramente. Uscendo lancio un’ultima occhiata al backstage, ma quel sorriso si è già dileguato. Vi lascio con una poesia scritta tempo fa che sembra riassumere questo momento, almeno per me. Si chiama ‘D’incontri fortuiti’. A presto...



D’incontri fortuiti
da un respiro mancato
soffocati dal cuore
sordo al suo stesso suono
d’occhi stupiti
che il suo lento sfilare ammirano
e senza parole rimpiangono,
per sempre

lunedì 7 marzo 2011

Assistenza Domiciliare

L’OSA è la cooperativa che nella mia circoscrizione fornisce l’assistenza domiciliare. Faccio capo a questa cooperativa, per quanto riguarda l’assistenza infermieristica settimanale, da quattordici anni. Avrò conosciuto all’incirca una ventina tra infermieri e infermiere, e sto arrotondano per difetto. Il rapporto professionale e umano che si instaura con la figura è, per forza di cose, molto intimo. D'altronde non potrebbe essere diversamente visto che si occupa delle cure igieniche e dello svuotamento rettale (l’indispensabile cagata mattutina per intenderci), almeno nel mio caso specifico. Come ho già detto ne ho cambiate molte negli anni, chi più chi meno brava, chi più chi meno simpatica com’è naturale che sia. Negli ultimi due anni ho avuto un’infermiera davvero speciale sotto tutti i punti di vista: Annalisa. Tra di noi, sin dal primo giorno, è nato un forte legame umano e professionale. Col senno di poi, avrei dovuto registrare le nostre interazioni mattiniere. Ve ne propongo una, dettata dal ricordo, che riassume il fantastico rapporto che si era creato.
Il suo arrivo si sentiva già all’ingresso di casa:
«E’ sveglio il principe?», di solito lo ero. A volte mi trovava appena alzato e partiva l’immediata ramanzina:
«Ancora stai a dormì?! Guarda che io ho da fare, non ho tempo da perdere»
«Cos’è un incubo? Sto ancora dormendo?»
«Ora ti do un bel pizzico dove senti così vediamo!»
«Oh madonna è arrivato l’uragano, stai calma»
«Te lo faccio vedere io ‘stai calma’, avanti in carrozza».
Il siparietto proseguiva in bagno mentre mi aiutava a fare la doccia, tra lanci di palle di bagno schiuma e schizzate d’acqua. Inframezzato da strofe e ritornelli di improbabili canzoni (da Mina a Rocky Roberts), cantati a squarciagola.
Insomma una ventata di energia positiva e leggerezza che aveva il potere di trasformare in bello anche il risveglio più cupo. Aspetto psicologico a mio avviso estremamente importante, che non viene neanche lontanamente preso in considerazione dalla cooperativa. Morale della favola: da un giorno all’altro decidono di effettuare un cambio infermiera per motivi amministrativi. Così mi è stato giustificato nelle mie accorate telefonate. Nel mese successivo c’è stato un avvicendarsi di figure talvolta imbarazzanti per la scarsa preparazione professionale. Non sto qui a dilungarmi in esempi, ma vi assicuro che in quattordici anni di disabilità un minimo di esperienza l’ho acquisita. Sono in grado di capire nel giro di cinque minuti se uno sa fare il suo lavoro o meno. Alla fine la situazione si è pressochè stabilizzata con un’altra infermiera più o meno preparata e sufficientemente piacevole (lontana anni luce da Annalisa). Con una fastidiosa novità: se Annalisa veniva tra le nove e mezza e le dieci, questa non arriva prima delle undici-undici e mezza. Per me è un problema. Non sono mai pronto e seduto prima delle dodici e trenta. Mi rovina tutta la mattinata facendomi perdere ore fondamentali per scrivere, oltre che precludermi qualsiasi tipo di appuntamento (ospedali, banca, mercato), che devo posticipare al pomeriggio togliendo ulteriori preziose ore alla scrittura. Inizio a chiamare la caposala della coperativa per risolvere il problema. Ogni volta mi sento dire che parlerà con l’infermiera e farà di tutto per cambiare l’orario, ma la musica non cambia di una nota. E non potrà mai cambiare visto che la ragazza viaggia in autobus e ha tanti pazienti prima di me. Non ce la può fare prima di quell’orario. Qualche giorno fa esasperato dall’attesa, alle undici e quaranta ancora neanche l’ombra, chiamo la cooperativa. La caposala non c’è, mi passano un responsabile: Daniele.
Gli spiego il mio problema e lui mi risponde con un discorso anche giusto: ci sono pazienti che necessitano di cure a orari precisi per insuline e altri trattamenti importanti. Lungi da me scavalcare persone che necessitano di cure precise. Se c‘è una dote che ho sviluppato in questi anni è la solidarietà, soprattutto nei confronti di chi sta male. Gli faccio però notare che ho un lavoro e che c’è stato un cambiamento di orario abbastanza importante (allora potevate lasciarmi Annalisa), e che di conseguenza anch’io ho delle necessità. E’ qui che il discorso di Daniele cade in un buco nero che mi ha obbligato a scrivere questo post, pronunciando le frasi che da un ‘responsabile’ non ti aspetti:
«Lei quindi lavora, esce?»
«Si perché?»
«Sa noi diamo assistenza esclusivamente a chi non deambula».
Qui sarebbe stato giusto coprirlo di insulti. Mi sono limitato a dargli del ridicolo. In realtà la frase è di un’incompetenza e di una superficialità agghiaccianti. Innanzitutto caro Daniele, visto che sai che sono anni che ricevo la vostra assistenza, dovresti anche sapere che la mia patologia è: tetraplegia completa spastica a livello C 5-6. Significa che ho l’ottanta per cento del corpo paralizzato, muovo il braccio destro bene, quello sinistro molto male e ho entrambe le mani paralizzate (scrivo con la nocca del mignolo della mano destra). Deambulo su una sedia a rotelle e si, caro Daniele, esco. Potrà sembrare strano a qualcuno che evidentemente pensa, come purtroppo gran parte della gente, che il disabile è tale quando sta a casa con mamma e zia e con una copertina sulle gambe. Io invece esco, vivo, condivido emozioni e mi diverto come se non più degli altri. Dovresti essere così sensibile da capirlo visto il ruolo che ricopri. Ti dirò di più, oltre che scrivere, sono anche musicista e produttore musicale. Io e la mia carrozzina abbiamo ‘deambulato’ in turnè per tutta l’Italia, su palcoscenici importanti. Pensa un po’ che strano. Oltretutto la mia patologia mi garantirebbe per legge l’assistenza sei giorni a settimana. E’ solo per mia scelta che ne usufruisco per soli tre, quindi vi sto facendo un favore. Ultimo aspetto da non tralasciare: mi hai congedato al telefono dicendo, anche tu, che ne parlerai con l’infermiera. Questo aspetto democratico del rapporto lavorativo non esiste. Voi imponete una determinata mole di lavoro ai vostri dipendenti che, se non ce la fanno, sono liberi di trovarsi un altro impiego. Ce ne fosse stato uno in questi anni che non mi ha parlato male della vostra conduzione. Tutto questo mi ricorda il nostro governo: democratico fuori, dittatoriale dentro. Adesso, siate gentili, cercate di venirmi un minimo incontro sugli orari. A presto.

mercoledì 2 marzo 2011

Incontri (un racconto breve scritto mesi fa...)

Vago per strade a me familiari, in mezzo alle ombre di ciò che potrebbe essere stato mio, di ciò che ho perso e di quello che sarei potuto diventare. Credo siano pensieri comuni dopo una certa età. Si invecchia e si pensa agli errori commessi, alle occasioni mancate. Solo che io una certa età ancora non ce l’ho. Non sono neanche vicino ad averla. Si dice che uno è vecchio quando vive di ricordi. Io semplicemente ricordo, ma non mi sento vecchio. Forse sono proprio le proiezioni nel mio passato a tenermi in vita. Così lontano ormai che sta diventando sempre più difficile metterlo a fuoco. Un passato sfocato, ma ancora vivo e vibrante.

Se non fossi mai tornato da New York?
Se avessi comprato la nuda proprietà della casa in fondo alla via?
Se avessi suonato la tromba invece della chitarra?

Certo sarebbe un altro presente. Chissà se più o meno doloroso e difficile di questo. E un nuovo passato, e un futuro incerto, com’è giusto che sia.
Vorrebbe dire cancellare incontri, amicizie, amori. Cancellerei anche tanto dolore, ma per trovarne di nuovo e sconosciuto. Insomma tabula rasa e via, si ricomincia da zero. Da una tela immacolata.
Ma io non ho voglia di ricominciare, non voglio cancellare il quadro che a fatica ho dipinto finora.
Apro gli occhi e sono davanti al ristorante di Aria. Sorpreso. Mi ero scordato di essere uscito per venire qui. Guardo i tavoli fuori, pieni di gente. Una ragazza di schiena, con taccuino e penna in mano, prende un ordine. E’ una schiena che non ho mai visto. Si apre il portellone del furgone: è Michele che mi saluta e inizia immediatamente le operazioni per farmi scendere.
«E di chi sarebbe quella bellissima schiena?», chiedo.
«Sarà Daniela»
«No, Daniela la conosco e quella schiena se la sogna»
«Gina?», Michele continua a rispondermi senza guardare, intento a liberare la carrozzina dalle cinghie che la bloccano.
«Gina di spalle sembra un giocatore di rugby, se magari ti fermi un secondo e guardi la finiamo con l’interrogatorio». Si ferma giusto l’attimo necessario per darle un’occhiata distratta:
«Non l’ho mai vista»
«Ma è il ristorante della tua fidanzata o no?»
«Sarà nuova».
Come potrei vivere un presente senza Michele. Non sembra esserci cosa in grado di sorprenderlo o coglierlo impreparato.
Entriamo nel ristorante e veniamo accolti da Aria e da suo padre Gianfranco, romano doc vecchio stampo. Mentre lo saluto, la ragazza che avevo visto di schiena mi passa davanti con due portate in mano. Mi sorride. E’ un sorriso dolce, solare anche se di passaggio. Un sorriso indaffarato. E un bel viso.
Gianfranco ci sistema di fuori, vicino alla cucina:«Così magni prima».
Saluto il resto del personale e mi faccio elencare i piatti del giorno. Tanto so già che ordinerrò la pasta con le telline. Vado a periodi, e questo è il periodo che mi piacciono le telline. Tra un po’ passerò al risotto agli scampi piuttosto che ai vermicelli coi moscardini. Una bottiglia di bianco fredda e un secondo.
«Chi mangia?», eccola di nuovo con tovaglioli e posate in mano.
«Io bevo», dichiara con la solita flemma Michele.
«Io mangio e, se avanza, berrei anche».
Sorride ancora. Sistema il coperto e mi porta il pane. La ringrazio.
Mangio la tellina e ordino anche il tonno alla griglia, annaffiando il tutto con l’ottimo vino. Sono di spalle rispetto agli altri tavoli esterni; vorrei sapere dov’è, guardarla per cercare il suo sguardo. Sperare che si avvicini per scambiare una battuta. Vivere quel momento di beato conflitto quando non sai dove troverai il coraggio per aprire bocca. Ma la carrozzina è bloccata sotto al tavolo e il mio collo non è più mobile come una volta. Potrei chiedere ad Aria di presentarmela o di portarla al tavolo, ma non voglio trucchi ne strategie. Mi basta uno sguardo sincero. Finisco la cena senza vederla. Anche perché il mio tavolo è circondato da tutto il resto del personale più proprietari. Ne deduco che lei sta impazzendo dietro al resto del ristorante.
«Non saremo in troppi a servì ‘sto tavolo?», come se mi avesse letto nel pensiero e con tutto il carico della sua romanità, Gianfranco riavvia i cervelli sopiti dei lavoranti, che riprendono le rispettive posizioni. Sembravano lavorare solo per il mio tavolo. Come potrei sopportare un presente senza le persone che ho intorno; che ho conosciuto dopo l’incidente; che amo profondamente.
Finisco la cena e il vino. Mi libero dalla morsa del tavolo e mi metto schiena al muro per riuscire a guardarla. I tavoli fuori sono vuoti e di lei neanche l’ombra. In effetti è già mezzanotte. Il mio girovagare mi aveva fatto arrivare tardi.
Finalmente la vedo uscire. Ha sciolto i capelli. Apre lo sportello della macchina e mi guarda.
«Ciao» le grido quasi senza volerlo.
«Ciao» mi risponde con lo stesso sorriso solare, stavolta meno indaffarato ma sempre di passaggio. Entra nell’auto ma continua a guardarmi. E’ semi nascosta da una pianta ma sento i suoi occhi addosso. Lo sguardo sincero. Rimani ancora li, ferma con la macchina in moto. Se potessi alzarmi verrei a convincerti che devi rimanere, che stai commettendo uno sbaglio di cui ti pentirai per sempre. E chissà cos’altro sarei in grado d’inventarmi per non lasciarti andare. Ma tu stai uscendo dal parcheggio e io sono inchiodato qui. E’ mezzanotte, sei Cenerentola e scappi via. Ma non lasci scarpette, e io non sono il principe azzurro.
Magari la prossima volta ti fermerai per qualche minuto, magari mi rivolgerai la parola, magari mi penserai un po’, magari non ti ricorderai nemmeno di avermi visto.
E allora ti porterò un fiore.
E questo racconto attaccato al gambo.
E la consapevolezza che qualcuno non potrebbe sopportare di vivere un presente diverso.