giovedì 24 dicembre 2009

E' la vigilia di Natale e mi sento un po' Mr. Scrooge. Non sono ne scontroso ne tirchio, ne tantomeno penso che il Natale sia una festa inutile. Anzi a me piace, e mi piacerebbe passarlo insieme alla mia famiglia, come facevamo quando papà era vivo. Invece mi ritrovo qui nella mia immensa casa da solo. La governante, prima di scappare via per paura di perdere l'autobus, mi ha apparecchiato la tavola e sistemato il cibo in modo che potessi mangiarlo da solo. Almeno non mangio la zuppa rancida direttamente dal pentolino tipo Scrooge. Ho fatto entrare i cani per avere un po' di compagnia. Mi guardano da lontano pietosi sperando che gli conceda un assaggino del mio pasto. Cosa che, come sanno bene, non accadrà. Finito di mangiare mi seguono in camera e si piazzano davanti alla stufetta che li illumina come un camino. Penso a mia sorella Valentina in montagna con figlio e marito, che del Natale se ne fotte; penso a mio fratello Franco con moglie e figli, anch'egli in montagna a festeggiare il Natale con i genitori del fidanzato della figliastra (madonna che incrocio); penso all'altra sorella Roberta, che voleva portarmi con se ma la casa dove sta non è accessibile; e penso a mia madre che sta dalla suocera (dove non sarei andato neanche dietro compenso). Dopo tutto questo pensare mi chiedo perchè non passiamo il Natale insieme, e sinceramente non trovo una risposta soddisfacente. Mi chiedo anche se sia giusto o meno che io lo passi da solo. Non che mi dispiaccia, ma non essendo autosufficiente è un minimo pericoloso in realtà. Credo di dover arrendermi al fatto che prima metto su famiglia, prima smetto di stare solo a Natale.
Ah dimenticavo, Buon Natale a tutti!

lunedì 21 dicembre 2009

Buon Natale a tutti. Sono successe diverse cose in questo mese, inizierò in ordine cronologico.

Alla fine di Novembre mi contatta un mio amico artista. Mi chiede se mi va di aiutarlo a portare a termine un'installazione nell'ambito della manifestazione «Luci d'Ancona» ad Ancona appunto. Si tratta di far suonare un intero conservatorio dalle sue finestre che si affacciano su una piazza dove c'è l'antica fontana delle tredici cannelle, e di far suonare anche la fontana. Rimango un secondo in silenzio. Non ho capito niente, neanche lui in realtà, ma continuiamo la conversazione. Alla fine ci capiamo. Dobbiamo registrare la vita pulsante del conservatorio: le lezioni, le prove, l'orchestra insomma tutto quello che succede al suo interno normalmente. Una volta acquisito e ascoltato il materiale, selezionarne una parte per una composizione che suonerà attraverso le quindici finestre della facciata del palazzo del conservatorio che si affacciano in Piazza Roma, nel cuore del centro di Ancona. In più dobbiamo fare in modo che suoni anche la fontana: invece che acqua, dalle tredici cannelle deve uscire suono. Molto coinvolgente e interessante come progetto. Accetto l'incarico con grande entusiasmo e chiamo subito Marco, il mio socio nei lavori musicali, per curare tutta la parte tecnica. Mia madre e mio padre sono di Ancona e quindi gran parte del mio «parentado» risiede in città. Chiamo mia cugina Monica che è felice di ospitarmi a casa dei genitori. Mia zia Irma inizia subito a chiedere cosa voglio mangiare durante la mia permanenza. Vorrebbe che le scrivessi un menù pranzo cena per tutti i giorni che ho intenzone di fermarmi, che sono sempre troppo pochi. Partiamo di martedì e iniziamo le registrazioni la sera stessa. Ci sono le prove dell'orchestra del conservatorio. E' come entrare in un mondo nuovo, incontaminato. In tanti anni di musica non sono mai entrato in un conservatorio, non ho mai visto le prove di un'orchestra dal vivo. Sembra tutto molto semplice. I musicisti sono quasi tutti maestri e ogni ordine del direttore viene eseguito alla perfezione. E' veramente emozionante anche se ha molto a che fare con la matematica oltre che con la musica. La mattina dopo arriviamo presto. Dalla strada si sentono diversi strumenti risuonare nell'aria. Insieme a Paolo, l'artista responsabile dell'installazione, incontriamo Francesco che si occupa delle riprese video. Entriamo e ci mettiamo al lavoro. Montiamo tutto il setup di macchine e computer per registrare su un carrellino gentilmente offerto dal guardiano, e con asta e microfono iniziamo a introdurci nelle stanze dove sentiamo attività musicale. Mentre Francesco riprende tutto quello che può cercando di essere il meno invasivo possibile. Addirittura rubando immagini dai buchi delle serrature delle porte, neanche fosse Tinto Brass. La vita del conservatorio viene piacevolmente scossa dalla nostra bizzarra presenza e tutti si dimostrano più che disponibili alla nostra pacifica invasione. Incontriamo il preside dell'istituto che ci aiuta consigliandoci in quali aule andare e presentandoci ai vari maestri insegnanti. Col passare del tempo diventa una caccia alla musica o situazione più interessante. E' così che conosciamo Cettina, una pianista catanese di ventuno anni. Un mostro di bravura. Io personalmente vengo rapito dalle sue esecuzioni e la tengo d'occhio tutto il giorno. Nel pomeriggio la vedo entrare con una sua amica pianista orientale in una stanza con due pianoforti:«Suonate ancora?»
«Giochiamo un po'».
Giochiamo? Chiamo subito i ragazzi e gli ficchiamo il microfono dentro. Le due ragazze, stimolate anche dalla nostra presenza, si lanciano in una serie di duetti mozzafiato divertendosi come bambine. Ridono e, appunto, giocano. E' qui che sta il succo di tutto quello che è il conservatorio. Molti musicisti come me, lo hanno sempre visto come un luogo tetro, popolato da maestri super severi dove studiare musica diventa un supplizio degno di un luogo di tortura medievale. Chiaramente non è così, è un posto dove lo studio e l'applicazione sono molto importanti quanto lo è il gioco. E i maestri sono, molte volte, i primi a giocare. Continuiamo le registrazioni fino alle nove di sera, nel frattempo ci raggiunge mia cugina e insieme ce ne torniamo a casa. Dove zia Irma e zio Maurizio ci attendono con una tavola imbandita e fumante. Me ne vado a letto pieno come una botte e soddisfatto per la giornata positiva e piena di scoperte. L'unico problema è che nella stanza che ospita me e il mio assistente c'è una temperatura da cella frigorifera. Mi ficco completamente sotto due coperte di lana pesante e risbuco fuori come uno scoiattolo dalla tana solo la mattina. Il ritornello al conservatorio è sempre lo stesso: noi che giriamo di aula in aula con le nostre orecchie tecnologiche a rubare momenti musicali. Oggi è la volta dei cantanti lirici. Hanno voci cosi potenti che bisogna stare estremamente attenti ai volumi. Riusciamo a registrare anche dei percussionisti che si impegnano alla grande una volta capito il progetto. Alla fine della giornata mi rendo conto che sto vivendo in un mondo parallelo che, nel giro di due giorni, mi ha coinvolto nel suo moto vorticoso dove il suono è l'unico aspetto importante. Ora capisco l'introversione o la particolarità di molti musicisti classsici. Qui si è estranei al mondo reale. Le notizie, l'attualità, la politica non hanno alcun significato. Non ha importanza ciò che succede al di là delle note del pianoforte di Cettina o della marimba di Alessandro. Qui si vive di questo e nient'altro importa. Forse è questo il mondo veramente reale ed è finzione quello fuori del portone del conservatorio. Me ne torno a Roma contento per il materiale registrato e per l'esperienza vissuta. E ingrassato di un paio di chili grazie alla fantastica zia Irma. (Fine prima parte).

P.S. Ho omesso un piccolo particolare. L'ultimo giorno mentre giravamo per il conservatorio, Paolo ha deciso che era ora di giocare alle corse in carrozzina e ha accellerato all'improvviso senza avvertirmi. Risultato: la mano destra mi è finita tra i raggi della carrozzina in corsa e mi sono fratturato e lussato il mignolo. Ogni commento mi sembra superfluo.

domenica 6 dicembre 2009

Scrivere, pubblicare - tutto ciò non è che vanitas vanitatum. Tutte le cose che nascono in modo non disinteressato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, e solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient'altro, è la prova che una poesia è stata creata, che il bello è stato creato. (Salamov)
Un vero gentleman è quella persona che sa suonare la fisarmonica, ma non lo fa...

giovedì 3 dicembre 2009

Im memoria di Roberto

Ci sono cose nella vita che non dovrebbero mai succedere. Eventi per i quali ci dovrebbe essere una sorta di immunità naturale, una legge universale non scritta: un genitore non dovrebbe mai piangere un figlio, un padre lasciare dei giovani figli e per due innamorati ci vorrebbe una soglia sull’età, nessun tipo di complicazione prima dei settantacinque anni. Ho visto Roberto qualche settimana fa. E’ passato a farmi un saluto veloce. Si è fermato sulla porta della mia stanza perché era raffreddato e non voleva correre il rischio di passarmi i suoi microbi. Come al solito abbiamo iniziato a parlare della Roma. Era più forte di noi, dopo il consueto «ciao come stai» partiva la discussione calcistica. O meglio, partiva il monologo di Roberto in Mi maggiore intervallato da quelle quattro o cinque sillabe che mi lasciava pronunciare. Ma a me piaceva sentirlo. I suoi ragionamenti non sempre rispecchiavano la realtà, ma filavano via veloci e sicuri come un’auto da corsa. Anzi, forse il gioco era proprio quello: non vedevo l’ora di accendere il motore per sentirne il rombo imponente. Questa volta non mi hai aspettato, hai acceso il motore e sei partito da solo. Questa volta hai recitato un monologo silenzioso, senza lasciare spazio ad alcuna sillaba. Sei stato troppo veloce amico mio. Ciao Roberto.

domenica 1 novembre 2009

Ho ricevuto una chiamata dalla segretaria (sempre bellissima) di Jimmy Ghione. Mi aspettavo la comunicazione del giorno in cui sarebbe stato trasmesso il servizio del quale sono stato protagonista. Mi comunica l'esatto contrario, o quasi. Dal momento che la vicenda si è risolta positivamente, non vogliono gettare benzina sul fuoco. La messa in onda del servizio è a discrezione di Milano. Partendo dal presupposto che non mi frega niente di apparire in video, non avendo alcuna mania di protagonismo, vorrei analizzare l'esito «positivo» della mia vicenda.
Posso essere contento e soddisfatto nel sapere che non dovrò mai più presentarmi a visita di controllo e che neanche devo aspettarmi una visita domiciliare. Quello che mi lascia a bocca aperta è la pressochè inesistente sensibilità verso gli altri 40.000 disabili con difficoltà anche più gravi della mia, che non hanno risolto un bel niente. Che saranno precettati a visita senza possibilità di scampo, con tutti i disagi che ciò comporta. Poi, parliamoci chiaro, io ci sono comunque dovuto andare all'inps a farmi vedere per ricevere la lettera di esonero. E le barriere architettoniche che impediscono l'entrata alla sede centrale? Non sono sufficienti a creare un caso? La mia denuncia non mirava a risolvere egoisticamente la mia personale situazione, ma voleva essere un esempio per tutte le persone che si trovano ad affrontare problemi analoghi. La prossima volta mi metto una telecamerina nascosta addosso e il servizio lo faccio da solo. E magari mi rivolgo alle «Iene».
Deluso vi saluto.

martedì 27 ottobre 2009

Il significato della parola «ipocrisia» riportato nel vocabolario della lingua italiana Zingarelli è il seguente:«Simulazione di buoni sentimenti e intenzioni lodevoli che non si possiedono».
Lo sostituirei con il testo della lettera dell'inps che mi è arrivata oggi, in merito al precedente post sulla mattinata passata con Jimmy Ghione e Striscia la Notizia alla sede centrale:
«Gentile Signore, le comunico che è stata definitivamente esonerata da ulteriori visite di controllo o di revisione della permanenza del suo stato invalidante. Dall'esame della documentazione sanitaria (ma non erano «giustificazioni presentate» per altro insufficienti?) risulta, infatti, che la sua patologia rientra tra quelle previste (ah ora rientra⁈) dal D.M. 2/8/2007. Nel rinnovarle le scuse per il disagio arrecato, la ringrazio per la collaborazione e le ricordo che i nostri uffici sono a sua disposizione per ulteriori informazioni e chiarimenti».
L'unico commento che mi viene spontaneo, anche se può risultare semplicistico, è che tutto in questo paese rispecchia fedelmente quindici anni di mal governo a cui nessuna opposizione è riuscita a dare un freno, neanche quando ne ha avuto la possibilità. La sola arma efficace per risolvere i problemi, è lo sputtanamento mediatico. Che tristezza. Meno male che ancora esistono persone che si prendono la briga di difendere chi non ha voce in capitolo.

giovedì 22 ottobre 2009

Sono andato alla sede centrale dell’inps insieme a Jimmy Ghione e alle telecamere di Striscia la Notizia. Ma facciamo un passo indietro per spiegare meglio l’accaduto. Intorno a metà Luglio ho ricevuto una simpatica lettera di convocazione da parte della Commissione Medica Superiore dell’inps. Oggetto della missiva, una visita per controllare la permanenza del mio stato invalidante. Allegato al quantomeno curioso ‘papello’ (non vedevo l’ora di utilizzare questo nuovo termine), c’era una lista di patologie che, previa presentazione di valida documentazione, venivano esentate dalla visita. La mia condizione fisica rientrava in questo elenco, ho quindi mandato un fax con allegati come richiesto: il certificato di invalidità, una certificazione del medico curante e un documento d’identità. Per tutta risposta a Settembre mi è arrivata una nuova convocazione che recitava così: «A seguito delle giustificazioni presentate, la Commissione Medica Superiore ha fissato una nuova data di convocazione a visita medica per valutare la permanenza del suo stato invalidante». Le «giustificazioni»?? Ma dove siamo a scuola? Io ho mandato una documentazione ufficiale. La «permanenza dello stato invalidante»?? Come se potessi guarire o miglorare. Con il benificio del dubbio, visto che l’Italia è ormai il paese dei furbi, posso capire la diffidenza. Magari sarebbe il caso che la montagna andasse da Maometto a valutare, e non viceversa. Così ho pensato di contattare Jimmy, che avevo avuto la fortuna di conoscere un po’ di tempo fa. Il quale, già allora, mi aveva proposto di andare in giro a scovare magagne architettoniche, istituzionali etc. etc. Quale migliore occasione? Infatti, dopo essersi consultato con gli autori di Striscia, ha accettato ‘l’incarico’.
Ci incontriamo alle 8 e 30 di mattina davanti alla sede centrale dell’inps di via Chopin. Per evitare di essere notati ci infiliamo, insieme alla troupe e alla bellissima segretaria Caterina, nel Macdonald’s di fronte. Rispiego brevemente l’accaduto, mostrando le lettere ricevute e i fax spediti. Ci spostiamo sotto degli alberi dietro una fila di macchine, dove Jimmy mi fa l’intervista di routine per spiegare il motivo dell’incursione ai telespettatori:«Cari amici di striscia siamo qui con Lorenzo....». Partiamo all’attacco. All’ingresso gli usceri salutano il giornalista d’assalto molto amichevolmente, con grandi strette di mano e frasi d’incoraggiamento:«Daje Jimmy!». Ne deduco che non è la prima volta che lo vedono. Tempo fa era venuto con una signora non vedente. Arriviamo davanti alla reception e chiediamo di parlare con un responsabile. Dopo qualche minuto sbuca una dottoressa, faccia da joker e calze a rete nere neanche stesse uscendo a cena fuori. Non ci fa nemmeno parlare:«Le telecamere qui non possono entrare»
«Perché no? Vogliamo solo una spiegazione», ribatte Jimmy
«C’è un ufficio stampa, parlate con loro», si gira e se ne va.
Jimmy prova a incalzarla senza successo. Disponibilità zero. Usciamo dal palazzo e ci dirigiamo verso la sede centrale dove si trova l’ufficio stampa dell’inps. Incredibile ma vero, l’istituto nazionale di previdenza sociale non è accessibile. Non solo è quasi impossibile arrivarci per via delle macchine parcheggiate davanti e dei marciapiedi senza scivolo, ma ci sono anche due rampe di scale all’ingresso prive di pedana elettrica montascale. Aiutato dal mio assistente e dai membri della troupe riesco a superare l’ostacolo. Non facciamo in tempo a entrare che un usciere con tanto di mostrine stellate, inizia a inveirci contro:
«Non si può entrare con le telecamere, non si può riprendere il logo dell’inps!»
«Ma se il logo c’è anche fuori grande e grosso. E poi perché non si può riprendere, è protetto dai servizi segreti?»
«Fuori si, dentro no!», urla ancora il graduato.
Ci sistemiamo vicino alla guardiola, dove gli altri uscieri si mostrano più disponibili e gentili. Arriva una chiamata, vogliono Jimmy. E’ il capo ufficio stampa che chiede i miei dati e promette che scenderà al più presto. Passa mezz’ora, durante la quale presumibilmente si stanno studiando l’intero corso della mia vita. Alla fine si presenta. Si chiama Marco Barbieri e ci spiega qual è il problema. La asl e l’inps non comunicano. Vale a dire che l’inps, nel momento in cui chiama a visita di controllo, non conosce la patologia della persona perché la asl non fornisce le cartelle cliniche. Faccio notare che ho mandato dei documenti per provare la mia condizione. La risposta è che potrebbero essere falsi. Quindi un disabile con gravi problemi di mobilità, deve comunque presentarsi a visita per provare, senza ombra di truffa, la sua effettiva condizione stabilmente precaria. Nel mio caso, visto che mi sono presentato con ‘l’arma’ Striscia la Notizia, ho vinto una visita a domicilio. Per gli altri non cambierà un bel niente. A parte per quelli che diventeranno disabili dal 1 Gennaio 2010, visto che ci sarà una riforma e l’inps diventerà detentrice ufficiale di cartelle cliniche. La riforma non è retroattiva. Ci lasciamo con strette di mano e pacche sulle spalle, ma con la ormai consueta tristezza che in questo paese nulla funziona come dovrebbe. A presto.

P.S. Io comunque chiederò un risarcimento per il disagio subito. Faccio male?

domenica 27 settembre 2009

Apparizioni a sparizioni. Eccomi qua. Sono ancora vivo. Impegnato a scrivere un romanzo (ecco perchè assente). Si, ci sto provando. Spinto da una mia cara amica scrittrice che, dopo aver letto un mio racconto, mi ha intimato di non sprecarlo come tale ma di costruirci attorno un romanzo. L'e-mail è stata decisa, dolce e molto convincente. Per cui l'assenza è giustificata. Farò di tutto per non abbandonarvi, miei cari (pochi) affezionati. A presto!

Ah dimenticavo comprate 'Il Fatto', che non è uno che si fa le canne ma un quotidiano che dice la verità. Molto piacevole di questi tempi...

W Travaglio, che un po' se la tira e fa pure bene!

lunedì 14 settembre 2009

Assicurazioni truffaldine

Nei primi giorni di Luglio mi ha chiamato Fabio, l'agente della Cattolica assicurazioni, per avvertirmi del repentino aumento della polizza che copre il mio furgone contro furto, incendio e danni a terzi. Con estrema naturalezza mi ha comunicato un aumento del doppio del premio ogni sei mesi. Da mille a duemila euro. Con altrettanta naturalezza ho risposto no grazie, cambio assicurazione. Ho contattato un mio caro amico assicuratore il quale, in quattro e quattr'otto, ha trovato il modo di farmi pagare mille euro ogni sei mesi. La stessa cifra che pagavo prima dello sconsiderato aumento. Fino a qui tutto bene. Il bello arriva intorno ai primi di Settembre. Appena rientrato dalle vacanze mi chiama il recupero crediti della Cattolica nella persona di Sonia (purtroppo non ricordo il cognome). Di solito si riceve una comunicazione scritta prima di arrivare al recupero crediti; nel mio caso no, direttamente la chiamata. Secondo Sonia ho un vincolo assicurativo che mi lega alla loro compagnia e sono obbligato a pagare il premio. Perdo immediatamente le staffe e attacco il telefono dicendo che mi informerò in merito. Chiamo subito il mio vecchio assicuratore che mi spiega cosa devo fare: basta andare allo sportello della banca presso la quale ho ottenuto il finanziamento per pagare il furgone, dove mi verrà consegnato un modello pre-stampato di svincolo assicurativo. Praticamente stanno provando a fregarmi. Vado alla Deutsche Bank, dove tempo un minuto e mezzo e con estrema cortesia, mi forniscono il documento. Torno a casa e mando il fax all'amministrazione della Cattolica. Il giorno dopo mi richiama Sonia:
«Salve, sono Sonia del recupero crediti della Cattolica (pagherei per sapere il cognome)»
«Salve, mi dica»
«Dovrebbe saldare il debito che ha con la compagnia»
«Ho mandato un fax con il documento di svincolo assicurativo proprio ieri»
Un attimo di silenzio.
«Ah...allora salgo in amministrazione a controllare e la richiamo se ci dovessero essere problemi»
«Problemi non ce ne saranno e lei farebbe bene ad avvertire la gente invece di tentare di truffarla. Per quanto mi riguarda uno strozzino in confronto a lei è un santo, almeno lui rischia la galera. Si faccia un esame di coscenza, se ancora ne ha una».
Non risponde e attacca.
A tutti quelli che dovessero avere un problema analogo: ora sapete cosa fare.

martedì 8 settembre 2009

Tornando da Ibiza

Sono sul traghetto della Grimaldi Lines. Tratta Barcellona- Civitavecchia. La tratta Ibiza- Barcellona l’ho fatta insieme al mio assistente, ovviamente, e a Bea che molto carinamente (Grazie! Grazie! Grazie!) si è offerta di accompagnarmi. In due con i cani e le valigie, e con l’assistenza ancora scadente sulle navi spagnole, sarebbe stato impossibile. La Grimaldi, al contrario, si distingue per la comodità del viaggio (stanza pressochè perfetta) e l’efficientissima assistenza: sono scesi in due nel garage ad occuparsi di me e del bagaglio, mentre Nilusha portava i cani nell’apposito canile. Ora sono seduto (...) al bar sul ponte numero undici. C’è una minuscola piscina piena di gente. Personalmente anche se potessi, non mi butterei in quella pozzanghera piena di funghi neanche pagato. Preferisco bagnarmi di tanto in tanto con dell’acqua minerale fresca. Fa caldo. Sono circondato dai classici italiani di ritorno dalle vacanze. Quelli che non vorresti mai incontrare, quelli con la maglietta da calcio dell’Italia made in China, quelli che ti si avvicinano incuranti che tu stia leggendo o scrivendo e attaccano bottone parlando del niente:«Che parte della Sardegna stiamo costeggiando?»
«Non lo so», cioè lo so ma non voglio alimentare la conversazione.
«Quanto manca all’arrivo?»
«Non lo so»
«Da quanto abbiamo lasciato Porto Torres?»
«Non lo so»
«Dove sei stato in vacanza?»
«Non lo so».
Mi guarda interdetto.
«Lo so ma non ho proprio voglia di parlarne. Mi sono beccato una bronchite, ho il fiato corto e parlare mi affatica».
Mi molla.
Mi è appena passato vicino un camionista spagnolo metallaro, con tanto di maglietta con teschio che mostra il dito medio. Fantastico. Chissà che impianto ha nella cabina del camion. Mentre altri quattro, sempre spagnoli, giocano un simil ‘tresette’ urlando come leoni marini in calore. Scrivere con questo delirio intorno è molto divertente. Mi sorprende che riesca a farlo. Ma non voglio scrivere del viaggio in nave. In realtà vorrei analizzare la vacanza nella sua totalità, partendo dal drastico cambiamento che sta interessando il popolo vacanziero-festaiolo di Ibiza. E’ la quarta volta che vengo sull’isola. Negli anni passati venire in traghetto era molto divertente. Centinaia di ragazzi tutti insieme. La ‘fiesta’ iniziava già in mezzo al mare. Avevi difficoltà a trovare spazio per dormire anche per terra. Quest’anno solo famiglie con bimbi. Di giovani solo una spolverata. Attività danzereccia ai minimi termini. Hanno chiuso dei locali e sono in procinto di chiuderne altri. Vanno molto gli afterhour in ville private: cinquanta persone o giù di lì; e le feste sulla spiaggia (come ho ampiamente descritto nei precedenti posts). L’isola della trasgressione non è più molto trasgressiva. C’è comunque uno zoccolo duro che resiste e fa finta che non sia cambiato niente, che è colpa della crisi, che è una fase ciclica e presto passerà. Questo la fa sembrare ancora più decadente, come una moda che non ne vuole sapere di passare. Come i mercatini ‘hippy’, che vendono ancora borsette con specchietti, braccialetti indiani etc. etc. Non dico che non sia divertente, ma quando poi si torna a casa la mattina, dopo una nottata di bagordi, rimane un po’ di tristezza. Forse è la totale mancanza di qualsiasi ‘appeal’ culturale a lasciarti pensieroso e malinconico. Almeno a me fa quest’effetto. Non potrei mai vivere qui, non nel prossimo futuro, ma per trascorrere le vacanze rimane uno dei posti più belli d’Europa. Per chi ama spiagge, tramonti e mare ovviamente. Ancora più bello sarebbe viverla in barca, anzi sarebbe un sogno. O meglio, il sogno di una vita. Per ora, purtroppo, non mi riguarda.
Ho visto invece tanti posti che non conoscevo: spiagge nuove nascoste e difficilmente raggiungibili, che reggono senza poblemi il paragone con certi luoghi incantevoli della Sardegna (che considero il top in fatto di mare); stradine che salgono intorno ai monti sulla costa nord, con viste mozzafiato; tramonti dai mille colori col sole che lentamente affonda nel mare.
Per quanto riguarda la casa, sono stato ospite di un castello multifunzionale: wifi ovunque (che in Spagna si pronuncia uifi); cucina super attrezzata con due enormi frigoriferi, lavastoviglie, forno, microonde, tostapane; lavanderia e garage dalle molteplici e curiose stanzette; piscina e veranda che sarebbe bastato quello a rendere la vacanza ottima e una doccia esterna con la cipolla che si illumina dal verde al rosso a seconda della temperatura dell’acqua. Stanze enormi e tutte dotate di condizionatore. I padroni di casa hanno perfino modificato gli esterni per abbattere le barriere architettoniche. Persone per bene.
Unico problema: Garibaldi. Si è fermato a metà conquista e ha pronunciato la fatidica parola ‘obbedisco’ ai Savoia. Parola che ha consentito ai regnanti di depredare il sud di tutte le sue ricchezze. Ecco perché il sud, nel 2009, è povero.
A buon intenditor poche parole... ciaoooooooooooo‼

giovedì 27 agosto 2009

Cronache da Ibiza #10

Bea mi ha fatto una torta. In realtà me ne ha fatte già altre due per il mio onomastico. Non si è capito se di proposito o per pura fortuna. Lei sostiene di averle fatte proprio perché sapeva della ricorrenza. Fatto sta che mi ha fatto tre torte e io non l’ho quasi mai nominata nel blog. Ieri verso le dieci e mezza sono tornato dall’Ushuaja, il locale-stabilimento dell’afterhour di cui vi ho già parlato. Non mi sentivo molto bene, ho una fastidiosissima tosse dovuta all’uso sconsiderato che tutti fanno dell’aria condizionata. Si passa da 35 gradi a 5 anche dal benzinaio. Prima o poi paghi. Arrivo a casa e mi trovo davanti Bea con una meravigliosa torta in mano:«Questa l’ho fatta per te. Ora mi nomini nel tuo blog?»
«Certo che ti nomino».
Avevo già in mente di scrivere su di lei, ma è molto divertente stuzzicarla. Come potrei non parlare di questa bravissima orefice cileno-napoletana (ho comprato alcune sue creazioni molto belle), molto simpatica e piena di energia, che per farla stare ferma bisogna legarla. Trapiantata a Napoli dove viveva col fidanzato Massimiliano, grande persona anche lui nonostante le nostre idee politiche siano opposte. Insieme si sono trasferiti a Ibiza per fuggire da Napoli (e come dargli torto). Fa molto ridere quando, nei discorsi più intensi, le scappano parole in dialetto. Immaginate un italiano con accento ispanico, inframezzato da strafalcioni napoletani. Insomma Bea, grazie per le buonissime torte (tranne una), ma grazie soprattutto del pensiero. E’ sempre molto bello incontrare persone con cui ci si trova subito bene, specialmente quando si vive sotto lo stesso tetto. Mi riferisco a entrambi.

martedì 25 agosto 2009

Cronache da Ibiza #9

In sequenza:

‧ Sono stato a un afterhour veramente divertente
‧ Ho visto uno dei tramonti più belli della mia vita, anzi due
‧ Ho avuto una colite che levati

L’afterhour è una festa dopo la festa. Come un after concert per intenderci. I deejays che hanno ‘suonato’ durante la festa notturna importante, si ritrovano in un ‘locale’ all’aperto sulla spiaggia e continuano fino a mezzanotte. Locale che in realtà è uno stabilimento con lettini. Qui si chiama chiringito ovvero chiosco, che poi non è. La festa è iniziata a mezzogiorno. Arrivo alle tre insieme a Nilusha, Andrea e Beatriz (che se non la nomino mi ammazza). Mi accoglie Mussa il manager di Luciano, uno dei dj più importanti in circolazione. Mi attacca il braccialetto per entrare al privè al polso (rosso privè, blu comuni mortali; distinzione che ho sempre odiato), mi guida dentro e mi offre da bere:«Qualsiasi cosa ti serve sono a tua disposizione, grazie di essere venuto». E’ veramente gentile Mussa, per tutto l’arco della festa di tanto in tanto si ferma a scambiare due chiacchiere. Che poi diventano quattro. Che poi diventano otto. Che poi si trasformano in invito fisso tutti i mercoledì con tutti i miei amici. Mi presenta il suo pupillo Luciano, anche lui molto tranquillo e disponibile. Considerate il fatto che questo tipo nell’ambito musica dance è una vera rockstar, con tanto di ballerine (=groupies) che gli muoiono dietro. In realtà è una persona molto umile, molto sensibile e molto di fuori (molto). La festa è organizzata dal Cocoon e cioè da Sven Vath. Personaggio incredibile. Autore della hit anni ottanta ‘Electrica Salsa’ e già milionario di famiglia. Nel tempo è diventato artista, produttore, promoter e proprietario del locale più bello d’Europa: il Cocoon di Berlino. Fattone si, ma anche una persona estremamente intelligente. Intanto il posto continua a riempirsi. Incontro un amica che non vedo da sette anni. Al tempo faceva la cameriera nel ristorante di un caro amico. Non è cambiata di una virgola. Bella come prima, il tempo non sembra essere passato per lei, e matta come prima. Mi ha dato buca già tre volte a tre diversi appuntamenti. Ha una figlia di cinque anni che è partita per dieci giorni coi parenti. Non le è sembrato vero avere tempo libero per fare un po’ di ‘fiesta’, quindi si è persa in giro per locali. Accanto a me ci sono due ciccioni russi con due stanghe al seguito. Hanno il tavolo pieno di cose da bere. Bottiglie di qualsiasi tipo: dal Jack Daniels all’Absolut Vodka, passando per Sprite, Cocacola, Schweppes e salatini vari. Io e Andrea stiamo fumando. Le tipe ci guardano e sorridono. Anche i due ciccioni sorridono. Gli offriamo da fumare. Impazziscono. Ci danno accesso totale al loro tavolo. Da signori, non ne approfittiamo. Avremmo volentieri approfittato delle stanghe, ma il petrolio russo è più attraente di un disabile e di un rasta. La festa continua nel delirio. Sia il dance floor che la spiaggia sono pieni all’inverosimile. Rimango nel privè, che è l’unico posto ancora vivibile. Unico neo: un mega ventilatore che gira lentamente a cui non mi posso sottrarre se non uscendo. Così faccio fare esercizio al buttafuori che, al mio comando, alza e abbassa il cordone che separa l’inferno dal paradiso. Diventa quasi un gioco macabro. Se potesse mi ci strozzerebbe col cordone. Si, mi sto approfittando della mia condizione, allora?? Andrea mi presenta una tipa brasiliana-italiana-inglese che in venti minuti mi racconta la sua vita. Ha trentadue anni, due figli di nove e dodici anni frutto di un matrimonio durato dieci anni con un’italiano. Il padre è un percussionista brasiliano che negli anni settanta ha girato in tour con Greatful Dead e Pink Floyd (niente di meno). E’ la prima volta che esce da quando è arrivata. Vuole anche darmi una pacca psicologica sulla spalla, parlandomi in toni entusiastici di un suo amico paraplegico che nonstante tutto si gode la vita. Le esce malissimo e io di pacche sulle spalle non è ho più bisogno da tempo. La festa finisce. Ora nel privè siamo rimasti in pochi. La gente sta sfollando. Sven Vath sbuca dal nulla e si dirige verso di me. Mi abbraccia. E’ veramente sudato. Non parla, comunica a gesti. Capisco che si è strafatto e ora, dopo ore di musica, ha un down che se lo porta e non riesce a parlare. Nilusha mi guarda:«Perché non parla? Stanco?»
«Si, stanchissimo direi». Mentre guadagno l’uscita Sven mi abbranca di nuovo. Stavolta parla, ma in tedesco. Se ne accorge:«Ma ti sto parlando in tedesco?»
«Si Sven»
«I wish you all the best»
«See you soon Sven».

Passiamo al tramonto. Ai tramonti in verità. Tutti e due dalla stessa spiaggia. Quindi ne racconto uno. Il posto si chiama Benirras, è a nord di Ibiza. E’ una cala protetta con davanti un faraglione dalla cima tonda. Il mare è veramente bello, ricorda la Sardegna. Ci sono parecchie barche in rada. Rendono il tutto più suggestivo. L’unico problema è che nessuna di esse mi appartiene. Vedere il tramonto dalla spiaggia è bellissimo, vederlo dalla barca è un altro paio di maniche. Il sole sfiora il faraglione scendendo lentamente fino a tuffarsi nel mare, dove si riflette lasciando una scia arancione brillante. Il cielo si trasforma attraverso i colori. L’azzurro diventa giallo e si tuffa nel rosso-fucsia-violetto che il sole si è lasciato dietro. Ci sono tante persone a godersi la performance che esplodono nel classico applauso quando l’ultimo spicchio arancione sparisce dall’orizzonte. Tutto fantastico tranne i gruppetti di spagnoli vacanzieri che si fotografano, vestiti in maniere improbabili con accostamenti di colori che neanche sotto LSD.

Sulla colica calerei l’ennesimo velo pietoso (non saranno mai troppi). Se qualcuno volesse conoscere i particolari, può chiedere a Nilusha.

giovedì 20 agosto 2009

Cronache da Ibiza #8

Sono reduce da una sbronza di quelle con la S maiuscola. Quelle che ti prendi da adolescente. Quelle che il mondo gira a una velocità insostenibile e sei pronto a vomitarti le budella. Quelle che da un certo punto in poi non ti ricordi né con chi hai parlato, né tantomeno cosa hai detto. Insomma, quelle. Sono uscito con l’idea di bere ma, come succede a tutti in questi casi, ho bevuto il bicchiere di troppo. Nel mio caso i bicchieri di troppo. Sette calici pieni di ‘Hierbas’ con ghiaccio, tipico liquore made in Ibiza dal sapore dolciastro. Una bomba. Teatro della mia performance sempre il Delano sulla spiaggia, stavolta la festa l’abbiamo organizzata noi col marchio del negozio di dischi. Bella festa. Molta gente. Massimo fa un live set, mentre Andrea, Renè e il dj resident (di cui non ricordo il nome) fanno volare i vinili sopra i piatti come freesbies. In realtà la vera performance la fanno due spilungone nordiche. Una bionda e una mora. Veramente alte, più di un metro e ottanta cadauna (che in tutto fanno tre metri e sessanta) e veramente belle. Ballano insieme a un loro amico. Li guardo da un po’, cercando di capire quale delle due è libera. L’arcano si svela da se poco dopo. Le tipe si abbracciano inscenando un balletto sexy e iniziano a baciarsi. Un bacio di quelli seri, appassionato e coinvolgente. Così coinvolgente che i maschi intorno rimangono a ganasce spalancate per il minuto buono dell’esecuzione, per esplodere poi in un sonoro applauso tra le risate di tutti, anche delle stesse altezze nordiche. Questa è una delle ultime cose che ricordo con lucidità (e chi se la scorda). Ricordo di aver detto:«Esco a prendere un po’ d’aria».
Poi solo momenti, qualche persona e una fatica immane per cercare di rallentare tutto ciò che avevo intorno. Ricordo anche la brezza marina, che mi dava un certo sollievo, e rumori di mazzi di chiavi (non chiedetemi perché).
Ah, ricordo anche un coniglio in mezzo alla strada. Nilusha dice che ne abbiamo incontrati cinque tornando. Su quello che mi hanno raccontato gli altri calerei un velo pietoso, anche perché mi viene da vomitare al solo pensiero. Sono in hangover da due giorni, non ho più l’età.

domenica 16 agosto 2009

Cronache da Ibiza #7

Vado in farmacia a comprare una pomata cicatrizzante. La farmacista che mi serve è bellissima. Le chiedo un prodotto italiano che ovviamente non c’è. Me ne consiglia uno spagnolo con antibiotico dicendo che è molto buono. Le credo. Le crederei anche se mi dicesse che ha la cura per rimettermi in piedi. Esco, faccio qualche metro e decido che la voglio rivedere. Torno indietro. Le arrivo di nuovo davanti e, tra l’universo delle medicine, chiedo:«Fermencto lacticos?»
«Por la diarrea?»
La guardo per un attimo in silenzio e cerco di salvare il salvabile.
«Si...ma non è che la tengo ahora, para prevenir».
Mi da delle pillole tutta sorridente e gentile. Non entrerò mai più in quella farmacia.

Cronache da Ibiza #6

E’ ferragosto e fa caldo. Dopo due giorni di mare fantastici, sono sotto il portico di casa in attesa di Alessio. E’ bloccato in fila a motore spento sulla strada per S. Eularia, il paese dove abito, a causa di un incidente. Ne approfitto per scrivere due righe. Sono stato al casinò. In compagnia di Gianni, un amico che possiede un negozio di abbigliamento sull’isola e un habituè della ludoteca. All’ingresso ci chiedono i documenti. L’addetta alla registrazione ospiti sgrana gli occhi alla vista del nome completo del mio assistente: Nilusha Rangana Kankanamalge Fernando diventa magicamente Fernando. Si prendono anche la borsa e mi lasciano una ricevuta. Entriamo. Si gela. Dal caldo torrido a cinque gradi, con tanto di getto d’aria fredda in testa proveniente dalla cornice alta della porta. Sono in camicia a maniche corte e già so che mi ammalerò. Lo stanzone enorme è pieno di tavoli da roulette e black jack. Ci dirigiamo verso il bar con Gianni in testa che si gira e mi rassicura:«Tranquillo se perdiamo ci rifacciamo sul bar, non mi fanno pagare».
Iniziamo subito a vincere ordinando quattro drinks. Bevendo diamo un’occhiata ai tavoli cercando di decidere su quale puntare, eccitati come cuccioli davanti alle mammelle materne traboccanti di latte. Scegliamo la roulette nella ‘stanza’ (200 mq) dei non fumatori, anche perché l’altra è una camera a gas, sperando sia più caldo. Non lo è. Studiamo qualche minuto che numeri escono, cambiamo cento euro e iniziamo a giocare. Puntata minima due euro e cinquanta, infatti le fiches partono da questa cifra. Prima di uscire da casa gli amici napoletani mi dicono di giocare il sette e il ventisette, i numeri di Lavezzi e Quagliarella due calciatori del Napoli. Il sette è anche il mio numero fortunato. Per equilibrare le parti gioco anche il dieci del Capitano e il diciassette, che non è il numero di nessuno in particolare solo mi piace. Insisto per qualche giro di pallina et voilà, esce il sette e di seguito il ventisette. Non ci posso credere, sto vincendo. Mi duole ammetterlo ma sui numeri i napoletani ne sanno una più del diavolo. Continuo con puntate più alte sui singoli numeri, sempre gli stessi, e su sestine e coppie: si colloca la puntata sull’angolo destro in mezzo a due file di numeri (sestine) o sulla linea che separa due numeri (coppia). L’incredibile è che vinco ancora. Esce il diciassette, indovino varie sestine e qualche coppia. Sono partito con cento euro e ora ne ho già circa quattrocento. Sono sicuro, è la mia serata. E con estrema sicurezza inizio immancabilmente a perdere. Il fluido fortunato ha cessato di scorrere e, piano piano, il mio gruzzoletto scema. Rimango con cinquanta euro mentre Gianni, che aveva cominciato male, si riprende. Percorsi inversi. Non mi do per vinto e cambio numeri. Riesco a vincere ancora cento euro. Sono le tre e mi sto trasformando in un ghiacciolo. Valuto la situazione: mi sono divertito, ho cinquanta euro in più di quando sono entrato e se resto domani avrò la febbre. Saluto gli amici e me ne vado a letto. La mattina mi chiama Gianni. Pochi minuti dopo il mio abbandono si è seduto al tavolo Diego Abatantuono, che tra l’altro conosco (è amico dei miei fratelli), con il quale sono andati avanti fino alle cinque di mattina. Giocava il ventitrè e usciva il dieci. Vi lascio con un piccolo estratto delle conversazioni tra i due:
G:«Ancora col ventitrè, tanto esce il Capitano»
A:«Cos’è che esce?»
G:«Il Capitano, Totti. Ma perché sempre il ventitrè?»
A:«Il capitano del Milan, Ambrosini»
G:«Mbè voi mette Totti con Ambrosini?»
A:«Bè, in effetti no».

martedì 11 agosto 2009

Cronache da Ibiza #5

Ecco a voi CAN CASTELL!!



Cronache da Ibiza #4

Ecco, ieri ho passato la prima giornata di merda della vacanza, e spero anche l’ultima. Mi sveglio alle undici. Dopo aver fatto colazione e operazioni di routine, raggiungo Andrea al negozio. Finalmente conosco Anushka, una dj russa di ventitrè anni che dio la benedica. Alta, lineamenti perfetti, simpatica e sorridente, si compra anche una scatola di dischi e, con calma, se li ascolta uno per uno allietando la nostra tarda mattinata. Il momento più bello da quando sono arrivato sull’isola. Alle due chiudiamo e andiamo a pranzo. Ci sediamo in un ristorante argentino che conosce Andrea, dove abbiamo già mangiato qualche sera fa. Ordiniamo un’insalata di tonno e un ‘vacio’: un tipo di bistecca dal taglio particolare, un parallelepipedo di carne. Mangio l’insalata e qualche pezzo del mostro geometrico, quando inizia a salirmi la pressione. Come se dovessi fare pipì ma la sensazione è diversa. Provo comunque a svuotare la vescica che risulta essere vuota di suo. Non riesco a respirare, sento premere sul petto e l’aria non entra bene. Sono improvvisamente debolissimo. Andrea paga il conto e mi mette in macchina. Mentre andiamo a casa mi sorregge, altrimenti cadrei di lato. L’aria condizionata non mi aiuta molto. Per un attimo penso che mi stia venendo un infarto. Forse dovrei andare al pronto soccorso. Penso alla cronaca di Ibiza (quella vera) e ai possibili titoli degli articoli:
«Muore d’infarto un disabile italiano che si sente male e, invece di andare in ospedale, torna come un coglione a casa». L’ipocondria di famiglia a cui credevo di essere immune, mi ha posseduto in un secondo. Continuo a respirare con grande difficoltà. Arrivato a casa mi stendo sul letto con l’aria condizionata al massimo. Ho brividi fortissimi di dolore. Sono sensazioni nuove, mai sentite prima. Mi spavento un po’, lo ammetto. E’ già parecchio tempo che mi sento in forma, ho perso l’abitudine a stare male, per fortuna. Mi faccio girare sul lato sinistro per smuovere il catarro, se ce ne fosse. Non ce n’è, in compenso la posizione lentamente mi rilassa. I dolori e la pressione alta mi abbandonano gradualmente. Rimane un grande mal di testa. Credo di si sia trattato di un blocco della digestione. Una delle poche cose che ancora non avevo avuto il piacere di provare nella vita. Per di più sono tre giorni che fa un tempo di merda. Ieri era S. Lorenzo, la magica notte delle stelle cadenti che neanche quest’estate sono riuscito a vedere. Calo un velo pietoso...

sabato 8 agosto 2009

Cronache da Ibiza #3

E’ arrivato Alessio insieme alla fidanzata Flavia. E che arrivo!!
Esco da un locale all’aperto chiamato Zoo (perché è veramente l’ex zoo di Ibiza) verso mezzanotte, dopo aver passato due ore piacevoli in compagnia dei System of survival, due ragazzi di Salerno che fanno musica elettronica; e dopo avere assistito a questa scena: una tipa inglese seduta accanto a noi mostra e si lascia palpare le tette dagli amici che le siedono intorno, spiegando in che modo sono state rifatte. L’arrivo del volo è previsto per mezzanotte e mezza. Oltre a me in macchina ci sono: Andrea alla guida, Nilusha, Mika e Milena una coppia di polacchi molto carini che hanno una stanza da affittare ad Alessio. Ci ferma la polizia convinta che Andrea sia il conducente di un ‘black taxi’. Ci sono 300 taxi ufficiali a Ibiza che schizzano su e giù per l’isola per 3000-5000 persone che escono dai vari locali ogni sera, di conseguenza proliferano i taxi in nero. Il problema è che i poliziotti, nonostante le ripetute spiegazioni che fanno finta di non sentire, ci mettono venti minuti a capire che sono disabile e che il furgone, modificato per il trasporto di una carrozzina, non può essere un black taxi. Superato l’ostacolo monocellulare poliziesco, accompagnamo Andrea al negozio di dischi e arriviamo all’aeroporto con venti minuti di ritardo. In compenso l’aereo è in ritardo di un’ora e Alessio non mi ha avvertito. L’unica magra consolazione è che a Nilusha servono venticinque minuti per capire che l’aereo non è in orario. Sommati al ritardo, manca poco all’effettivo arrivo. Passano lenti i minuti anche perché stiamo morendo di fame, ma passano. Di Alessio neanche l’ombra. Dopo poco squilla il telefono:«Eccolo, sto per uscire»
«Grazie per avermi avvertito del ritardo»
«Non prendeva il telefono sull’aereo»
«Ho fame sbrigati ti odio».
Ride e aggancia. Passano ancora dieci minuti e il telefono squilla di nuovo:
«Mi hanno perso la valigia».
Non ride più. Non ho parole. In realtà viene da ridere a me, ma mi trattengo.
Finalmente lo vedo sbucare. Sale in macchina e andiamo di corsa a mangiare.
Dopo aver ingurgitato un'orrendo cheeseburger, li lascio andare a casa con Mika e Milena e me ne vado a letto. Sono le quattro e sono stanco morto. Alle undici squilla il telefono. E’ Alessio che sconvolto mi descrive la casa:«A parte le formiche e le macchie di sperma sul letto, anzi sui letti perché sono due e piccoli, sembra di essere a Beirut dopo un bombardamento. La polvere regna sovrana e non ti descrivo la cucina perché verrebbe la nausea anche a te. Oltretutto sbuca gente nuova ogni cinque minuti. Ho trentaquattro anni e in vacanza voglio stare comodo, ti prego fai qualcosa siamo nelle tue mani».
Niente male come inizio vacanza, non vedo l’ora di vedere come procederà. Naturalmente vi terrò informati. A presto.

mercoledì 5 agosto 2009

Cronache da Ibiza #2

Due sere fa ho fatto la prima uscita nella movida ibizenca. Andrea suonava in un locale sulla spiaggia, il ‘Delano’. Un bel posto, non troppo affollato. Uno stanzone rettangolare bianco con bancone bar di lato e consolle in fondo, circondato per metà da finestroni cielo-terra che si affacciano su Platja d’en Bossa. Non faccio in tempo a entrare nel locale che mi si avvicina una donna con un vestitino bianco attillato. Balla ed esibisce un repertorio di faccette da festaiola navigata, prive di qualsiasi significato logico. Si accosta al mio orecchio:«Queres una pastilla?»
«No grazie». Mi guarda un po’ delusa, l’unica ‘faccetta’ comprensibile fin’ora, e continua a ballare. Parcheggio vicino al bancone del bar davanti alla consolle. Due ragazze che avevo conosciuto la sera prima mi vengono a salutare. Una è alta, di carnagione chiarissima e bionda platino; l’altra è indiana, bassetta e di carnagione scura. Mi viene in mente Zelig, sono pronte per un provino. Mi giro e rivedo la tipa col vestito bianco che alla faccetta stavolta abina anche una mossetta accattivante che mi disgusta. Andrea inizia a presentarmi tutti. Dai lavoranti ai djs alle ballerine dei locali famosi. E che ballerine. Da laurea ad honorem. Secondo me le fanno ballare sui cubi per evitare che girino sciolte per la discoteca a rovinare la serata a chi le vede per la prima volta. Arriva Matteo, un amico che non vedo da tempo. Lo violento immediatamente costringendolo a rollare una canna. Mi diverte vederlo girare indaffarato alla ricerca di sigarette e cartine. Alla fine ci riesce, ma dopo avermi fatto accendere si dilegua per un po’ a riprendere fiato. Il tempo passa e riesco a evitare con esperienza tutto quello che mi viene offerto. L’unica stronzata la faccio quando, soprapensiero, accetto un sorso d’acqua da una sconosciuta. Per fortuna me ne rendo conto mentre lo sto facendo. Con estrema scioltezza, mi assicuro che la tipa non mi sta guardando e sputo il sorso d’acqua, colpendo anche un pezzo di gamba di Nilushe (l’assistente). Il quale mi guarda esplodendo in una clamorosa risata:«Questo io non scorda mai!».
Arriva l’ora di andare a casa. Mentre esco mi raggiunge una ragazza che mi ballava vicino. In inglese con un accento dell’est mi dice che voleva salutarmi e che ho dei bellissimi occhi. Il modo di fare mi ricorda la mia ex. La ringrazio e me ne vado. Steso sul letto mi chiedo:«Hai ringraziato e te ne sei andato?». Amaramente divertito mi addormento. Come dice il vecchio saggio: ogni lasciata è persa...

lunedì 3 agosto 2009

Cronache da Ibiza #1

Sono appena arrivato a Ibiza. Due giorni fa alle sette di mattina, dopo una traversata di trentasei ore in nave. In due navi in realtà: una da Civitavecchia a Barcellona e l’altra da Barcellona a Ibiza. Viaggio tranquillo e meno impegnativo di quanto si possa immaginare. Prima tratta: imbarco alle dieci; ignobile cena a base di lasagna (che implorava a mani giunte di non essere mangiata) al ristorante self service «Barcelloneta»; canna sul ponte cercando di non essere catapultati fuoribordo dal fortissimo vento; visitina ai cani parcheggiati nel canile di bordo; dieci minuti al casinò, giusto il tempo di perdere cinquanta euro alla roulette incantati dalle tette della croupier; una sana dormita nella bellissima cabina per disabili (sorprendente davvero) e un pomeriggio tra sole sul ponte accanto al bar e incontri curiosi. Una ragazza di Acilia con minicane al seguito, in fuga da una dubbia convivenza di due anni. Amante dei rave, soprattutto dei prodotti tipici che tali feste offrono:«So stata a un rave prima di partire, me so presa due bombe e mezza, poi potevano pure mette er tango che ballavo uguale».
E un ragazzo di Napoli con moglie, figlio, amico e fidanzata dell’amico al seguito, che nel giro di quindici minuti mi mette al corrente del fatto che lui passa le vacanze in Andalucia a spacciare erba da dieci anni. Un vero genio del crimine, probabilmente alla fine del viaggio lo saprà mezza nave.
Seconda tratta: prima di salire sulla nave aiutiamo una coppia di mezza età a montare una ruota di scorta in un macchinone americano dopo un tentativo di rapina. Due tipi motorizzati si erano avvicinati alla macchina in corsa lenta verso il terminal e gli avevano bucato una gomma con un cacciavite. Sperando di bloccarli per rubare ciò che potevano. La coppia, da venticinque anni residente a Formentera per il periodo estivo, non era mai stata vittima di un assalto del genere. Due ex fricchettoni molto simpatici che mi piacerebbe incontrare di nuovo. Imbarco alle dieci; piccola incomprensione subito risolta sulla cabina per disabili che non mi avevano assegnato (e comunque scadente rispetto alla prima nave); orrendo bocadillo (panino) al bar di bordo visto che il self service era già inspiegabilmente chiuso (per fortuna forse); canna di rito sul ponte di poppa e brevissima dormita in cabina. La sveglia alle sei e un quarto dall’altoparlante della stanza ci ha veramente ucciso. Come zombies, ma felici, usciamo dal ventre della balena d’acciaio, sicuri o quasi di trovare il caro amico Andrea ad attenderci, anch’egli felice, sul molo d’attracco. Il caro amico è ancora felicemente addormentato nel suo letto di casa e mi risponde con voce squillante facendo, come al solito, finta di essere sveglio:«Pronto!»
«Stai dormendo»
«Chi è?!»
«E chi potrà mai essere?»
«Ao, dove stai?»
«A Ibiza sul molo dove dovresti essere anche tu ora, ricordi?»
«Pensavo arrivassi alle nove»
«Te l’ho detto che arrivavo alle sette»
«Tranquillo cinque minuti e sono da te».
In effetti arriva cinque minuti dopo, più zombie di noi, e ci porta a casa di Francesco, altro caro amico oltre che socio in un negozio di dischi, che ci ospita per il mese di Agosto. La casa si chiama (si qui le ville hanno un nome) ‘Can Castell’ ed è a tutti gli effetti un mini castello. Con tanto di torre e torretta. Con una piccola piscina e un giardino pavimentato pieno di rampe per facilitare il mio passaggio. I proprietari di casa, saputo del mio arrivo, hanno buttato giù le barriere architettoniche scusandosi di non averci pensato prima da soli. Altro mondo. Arriviamo che tutti dormono. Ci apre assonnatissimo Massimo, un amico di Francesco, che vive qui con la compagna Beatriz. E finalmente incontro il principe del castello: Fabio Bruno, un anno d’età e già comanda lui. Un piccolo bulldozer impazzito per i miei cani che se lo coccolano come un cucciolo. E Nadia, la mamma del principino e compagna di Francesco. Per ora è tutto, scappo al mare. Hastaluego...

venerdì 19 giugno 2009

Piccola Rivincita

Stanotte di ritorno da una cena, ho trovato il mio posto occupato da un'altra macchina. Con il conducente all'interno beatamente appoggiato allo schienale del sedile. Il mio assistente da un leggero tocco agli abbaglianti per destarlo dall'apparente sonno.
Non si muove un muscolo. Ne da un altro e il tipo improvvisamente si rianima facendo segno di non rompergli le palle. Da sotto al suo volante sbuca una testa che con un movimento vago si appoggia alla sua spalla. Il mio assistente indica il palo con la targa del posto riservato. La testa sbucata da un'occhiata fuori, si rende conto e si sposta sul sedile che le compete. Mentre il conducente si scusa, mette in moto e ridendo se ne va. Mi dispiace di averti rovinato un pompino, ma da ora in poi sono sicuro che controllerai dove ti parcheggi. Almeno in determinate occasioni, che è già qualcosa...
Stamattina mi ha contattato il Sig. Soru. La persona che, come riportato nel post relativo alle pensioni arretrate, ha ignorato le mie telefonate per mesi. Il signore è contrariato per quello che ho scritto. Secondo lui non ho detto la verità e mi sono nascosto dietro un blog per calunniare senza motivo.
Ho già risposto al signore per telefono, ma volevo ribadire alcuni fatti:
ho riportato tutto quello che è successo fedelmente, è la pura verità con testimoni pronti a confermarlo; nascondersi dietro un blog di pubblico utilizzo è una contraddizione in termini; se non si risponde alle chiamate perchè impegnati in riunioni e quant'altro, si può sempre richiamare dopo (diciamo che sarebbe quantomeno di buona educazione). Il mio non è stato mai un attacco a una persona, ma una denuncia di un disabile a cui accadono cose ingiuste. La telefonata di stamattina ha assunto toni metafisici che si collocano in una sfera che non mi compete. Se volesse rispondermi, il blog come ho già detto è pubblico e si possono lasciare commenti.

domenica 14 giugno 2009

Sono nell’atrio dell’ospedale.
Sto cercando di prendere l’ascensore, l’unico ascensore funzionante. Il mio reparto è al quarto piano.
Ci sono molte persone in attesa, tutte sparpagliate a semicerchio ma senza un ordine preciso, pronte ad avventarsi sulla preda come felini in agguato.
Ci sono anche le scale. Proprio accanto alla porta dell’ascensore, ma nessuno le prende. Nessuno le nota.
Guardano solo il display digitale che segna in quale piano si trova il mezzo, preparandosi all’assalto.
Cerco di farmi notare spingendo la carrozzina tra due persone, che per tutta risposta non si muovono e sbuffano senza degnarmi di uno sguardo. Mi sposto verso destra e riesco quasi a raggiungere l’entrata costeggiando il muro umano, ma stavolta tre signore si lanciano all’apertura della porta tagliandomi la strada.
Sono confuso. Non capisco cosa sta succedendo. Possibile che sia diventato invisibile? Perché nessuno mi nota? Per quale motivo nessuno si fa da parte? Perché nessuno usa le scale?
Se potessi camminare io le userei. Che siano anch’esse invisibili? Mi rivolgo al mio assistente:« Forse facciamo prima dalle scale». Lui si che mi nota e nota anche le scale e mi guarda come se fossi impazzito. In effetti solo pensare di fare quattro piani di scale in carrozzina è da malati mentali.
Di colpo la confusione svanisce. Il momento surreale in cui avevo sguazzato, anche con un minimo di piacere dovuto alla novità, torna a far parte della cruda realtà.
«AAAAHOOOOOOO!!» grido con tutta la forza che ho nei polmoni,
« Me lo fate prendere questo cazzo di ascensore o devo chiamare la polizia??».
Ora mi guardano tutti. Ora si che mi notano. La piccola folla si apre neanche fossi il Papa. Arrivo davanti all’ascensore che si chiude, pieno, mentre una ragazza mi guarda negli occhi scusandosi imbarazzata. Il punto sta proprio nella differenza che c’è tra guardare e vedere. La differenza di concentrazione che si mette nel guardare e nel vedere. Perché ognuno è concentrato su cosa gli serve guardare, tutto il resto lo vede soltanto.E diventa invisibile. Serve una scossa allora, per destare il dormiente. Per spostare l’attenzione dal display digitale all’essere umano. Per vergognarsi dei propri limiti. Per salire ogni scala, finchè si ha la forza di farlo. Per non sentire più la frase:«Carrozzine in giro per la città se ne vedono poche».

giovedì 7 maggio 2009

Domani, Venerdì 8 maggio 2009 c'è la presentazione del primo romanzo di Massimiliano D'Epiro dal titolo ''D'ESTRO'', al Caffè Letterario in via Ostiense n.95 alle 18.00.
L'autore, mio grande amico, mi ha chiesto di leggere due pagine. Quindi, se volete partecipare alla presentazione di un bel libro e, insieme, godervi lo spettacolo di «io che sbiascico», siete i benvenuti. A parte lo sbiascicante saranno presenti e leggeranno alcuni capitoli gli attori: Francesco Venditti, Elda Alvigini, Lorenzo De Angelis, Christian Iansante, Federico Pacifici. Accorrete numerosi!!!

giovedì 9 aprile 2009

Aggiornamento tragico sul dito infetto: me lo vogliono amputare, o meglio, me lo devono amputare. Eravamo rimasti che l'infezione stava passando e la ferita rimarginando rapidamente. Purtroppo, appena smesso l'antibiotico, il dito si è immediatamente rigonfiato e la ferita ha ricominciato buttare pus. L'amica chirurga ha deciso di pulirla bene, che in gergo vuol dire togliere parti infette a suon di bisturi. Scopriamo così che solo superficialmente sembrava si stesse chiudendo, mentre sotto continuava l'infezione. Per di più l'osso lussato tendeva a fuoriuscire dalla ferita impedendone comunque la guarigione. Così dopo la pulizia, che ha compreso anche l'asportazione di un pezzetto d'osso, ci siamo rivolti alla Professoressa Spagnoli: chirurga della mano e amica di Patricia. Il dito va medicato in ospedale tre volte a settimana. Visto che lei lavora al policlinico Gemelli, lontano da dove abito, per comodità mi manda da un altro chirurgo, il dottor Gentili, che lavora al S. Camillo. Dietro casa. Sono circondato da ospedali. Il nuovo dottore, gentile di nome e di fatto, mi visita e medica il dito infilandoci una garza iodoformica dentro e una pomata antibiotica esternamente. «Non si preoccupi, non è niente. Faccia questa medicazione ogni due giorni e ci vediamo la settimana prossima». Quasi contento me ne torno a casa. Alla prima medicazione il buonumore si disintegra: pus e dito più gonfio. Chiamo il dottore che mi prescrive un antibiotico per bocca. Dopo qualche giorno torno in visita. Non c'è pus ma il dito a me sembra più gonfio ancora, mentre il dottore continua col suo ottimismo:«Sta meglio, continui con le medicazioni e smetta pure l'antibiotico».
«Ma è sicuro che non ci sia un'infezione all'osso?»
«No, stia tranquillo»
«Ma perchè è così gonfio?», incalzo.
«Non è così gonfio le assicuro»
«Allora torno la prossima settimana?»
«Se vuole».
Come 'Se vuole'⁈ Ho una ferita aperta e infetta, che dovrei fare, lasciare che guarisca con queste medicazioni che non sembra funzionino e con l'aiuto del Signore? Chiamo immediatamente la Prof. Spagnoli, che mi invita al policlinico. La diagnosi è tragica: c'è chiaramente un'osteomielite e l'articolazione è distrutta. Scopriamo che l'antibiotico preso non era efficace contro entrambi i batteri presenti e iniziamo con un altro. Sia per via intramuscolare (due punture al giorno) che localmente, iniettandolo direttamente nella ferita. Devo tornare in ospedale per la medicazione ogni due giorni (non una volta a settimana). Dopo sette giorni la situazione non sembra migliorare. Per la prima volta la dottoressa mi prospetta l'eventuale amputazione. La tranquillità e la logica del suo ragionamento fanno visibilmente a cazzotti con il mio sconforto e la momentanea perdita dell'uso della parola. Il dito, cosi com'è ora, è un grave problema funzionale. L'articolazione tra la prima e la seconda falange non esiste più. Una parte mangiata dall'infezione e l'altra asportata per via della lussazione. E' tutto molto gonfio. La circolazione, già scarsa a causa della mielolesione, è totalmente compromessa; di conseguenza l'antibiotico non arriva nella zona periferica (ho il sangue snob, non gradisce circolare in periferia). Per di più il dito, ormai privo dell'articolazione, non rimane piegato insieme agli altri; al contrario, sale dritto verso l'alto. Rendendo ancora più difficili le poche cose che riesco a fare da solo. Se fosse il medio, per intenderci, avrei il vaffanculo azionato perennemente. Se l'infezione cammina, rischio ben più dell'anulare. Tutte motivazioni importanti e reali, ma un dito è sempre un dito, e io voglio essere sicuro al cento per cento. Incasso la notizia e chiedo tempo. Contatto e vedo un' infettivologo, il quale mi prescrive un altro antibiotico (tanto per gradire) e una risonanza magnetica. Prendo appuntamento in una clinica privata dove lavora un conoscente. Il dottore mi fa risonanza e alcune radiografie. Il risultato è pessimo. Anche lui mi consiglia di liberarmi del problema prima che si aggravi. Tra l'altro, conosce la Prof. che mi segue e mi assicura che sono in ottime mani. Arriviamo all'inizio della terza settimana di medicazioni senza il minimo miglioramento. Anzi, a me sembra più gonfio ancora. Assomiglia a una piantina grassa mezza spezzata. Mi convinco anch'io e decidiamo la data. Giovedì 16. Lo facciamo in day-hospital: vado mi operano e torno a casa.
Mi accompagnano due miei cari amici e mia sorella Valentina. Per sdrammatizzare si sprecano le battute, la più gettonata delle quali riguarda l'impossibilità di continuare a suonare il tamburello, e il conseguente lutto che il Salento sarà costretto a osservare per la scomparsa del più dotato musicista. Arriviamo e mi parcheggiano davanti all'entrata della sala operatoria. Dopo qualche minuto si apre una porta da cui esce un'anziana signora accompagnata da una dottoressa in camice verde operatorio. La più bella dottoressa mi sia capitato di vedere da quando frequento ospedali (e nn è poco). Se l'avessi incontrata per strada avrei pensato a una modella. Guarda nella mia direzione e chiede:«Qualcuno deve fare la biopsia?». Avrei voglia di alzare la mano e il pensiero mi fa sorridere. Credo se ne accorga perchè il sorriso che ricambia sa di «Te piacerebbe eh?».
Passano alcuni minuti e arriva il mio turno (non per la biopsia purtroppo). Mi portano dentro, e dopo aver cercato invano qualcosa di morbido su cui stendermi, decidiamo che la cosa migliore sia rimanere in carrozzina. A patto che guardi dalla parte opposta per non rischiare svenimenti. Niente di più semplice, figuratevi se guardo mentre mi affettano come un manzo. L'operazione, compresa l'anestesia locale, dura venti minuti. Bisturi, pinza coagulante, scalpellino e martello. Si scalpello e martello, neanche fossimo in cantiere. Mi fasciano tipo guantone da pugile, lasciando solo il pollice fuori. Non mi sento male, forse perchè non ho visto niente ancora. Dopo cinque giorni torno in ospedale per la prima medicazione. Mi accoglie una giovane dottoressa che inizia a togliermi il guantone. Sto morendo di curiosità e, allo stesso tempo, temo la mia reazione. Piano piano arriviamo alle ultime garze appiccicate dal sangue secco. Ho la visuale coperta dalla sua mano e dal dorso della mia, ma per ora non lascia che la giri. «La tenga così», mi dice e si allontana un secondo. Porto la mano davanti agli occhi. La vista dei punti un po' mi sciocca. Penso immediatamente ai film horror, con le peggiori aberrazioni della cucitura grossolana di arti, facce, occhi e quant'altro. La giovane dottoressa acchiappa di nuovo la mano:«Mettila qui dai».
Scoppio a ridere istericamente. Lei mi guarda perplessa. Entra la professoressa e alla vista del dito si compiace tutta:«Hai visto che bello?, guarda che bel lavoretto, sei contento? non c'è più infezione, sono proprio soddisfatta». Sembra una bambina felice col suo nuovo giocattolo. La passione del resto fa quest'effetto a tutte le età. Io a essere contento proprio non ci riesco. Lo capisco e so di aver agito in modo razionale e ponderato. Ma, ora che la fasciatura non nasconde più l'assenza, ogni tanto sento un vuoto allo stomaco e gli occhi mi si riempiono di lacrime. E' solo una questione d'abitudine. E col tempo, ci si abitua a tutto.

giovedì 19 marzo 2009

Udite udite!! E' appena uscita, in un libro, una raccolta di lettere scritte da persone più o meno note e indirizzate a genitori, fratelli, figli e parenti con disabilità diverse. Il libro si chiama «Amore Caro» (Cairo Editore) ed è a cura di Clara Sereni. Uno degli autori meno noti (forse «il» meno noto visto che è la prima volta che mi pubblicano) sarei io, gli altri sono: Franco Amurri, Pulsatilla, Giovanni Maria Bellu, Oliviero Beha, Gloria Buffo, Paola Free Martin, Barbara Garlaschelli, Paola Cortellesi, Valentina Locchi, Kicca Menoni, Lunetta Savino, Marco Savino e Clara Sereni che ha scritto il bellissimo capitolo introduttivo. Tutti i proventi verranno devoluti alla fondazione «La città del sole», una Onlus impegnata nell'integrazione di varie diversità. Quindi, riassumendo, vi elenco alcuni motivi per i quali dovete comprarvi il libro:

A: Perchè è un bel libro, e potrebbe aprire qualche mente.

B: Perchè è scritto da fior di giornalisti, scrittori, attori e quant'altro.

C: Perchè i proventi andranno a una fondazione che lavora concretamente e seriamente.

D: Perchè una delle lettere l'ho scritta io (è o non è il mio blog questo?!).

E: Perchè «Caro» m'è costato, «Amore», denudarmi in questa maniera. E, come a me, credo a tutti gli autori presenti.

Come direbbe una mia cara amica: ACCATTATEVILLO!

sabato 14 marzo 2009

Ho avuto un incubo. Premetto che ho il terrore di volare. Detesto prendere l'aereo. All'occorrenza, ne faccio volentieri a meno. Forse perchè il mio segno, il capricorno, è saldamente attaccato alla terra o, più probabilmente, perchè un amico di famiglia, pilota alitalia in pensione, tempo fa mi ha detto che non riesce a spiegarsi il motivo per il quale permettano alla gente di viaggiare in aereo:«E' il mezzo più insicuro che conosco». Fatto sta che odio volare. Ovviamente ho sognato di schiantarmi con un volo di linea. L'aereo, come nei migliori film del settore, inizia a tremare e sussultare sempre più forte. Poi precipita, roteando in una vorticosa spirale: la carlinga piegata sul lato sinistro, come se qualcuno avesse preso al lazo l'ala e stesse tirando giù con forza. La gente urla terrorizzata, mentre borse e pacchetti cadono dagli scomparti spalancati dalla forza centrifuga. Ho le mani attaccate ai braccioli e il corpo teso, spiaccicato contro lo schienale del sedile. Mi rendo conto che sto per schiantarmi. Tutti se ne rendono conto. In quel momento, la voce del comandante si diffonde attraverso gli altoparlanti:«Siamo davvero spiacenti che l'aereo stia precipitando e che morirete con la nostra compagnia. Ci auguriamo che l'evento risulti indolore e vi assicuriamo che faremo chiarezza sull'accaduto. Addio.». Mi sveglio con la voce del comandante nelle orecchie e il cuore in piena tachicardia. Ho il fiatone. Accendo la luce: casa dolce casa. Mai stato così felice di essere nella mia stanza. Sembrava vero.
Non parlatemi di volare per almeno sei mesi.

martedì 24 febbraio 2009

Ho voluto farmi del male. Mi sono auto-inflitto una pena d'altri tempi, pur sapendo a cosa andavo incontro. Ho visto la terza serata di Sanremo. Per intero, dall'inizio alla fine. Agghiacciante, disgustoso, reiterante, politicamente scorretto, vergognoso, sono aggettivi che non riescono a rendere l'idea reale dello spettacolo a cui ho assistito. L'aggettivo adatto non esiste, bisognerebbe inventarlo. Le tante sentenze acclamate a priori, quali: «Sarà il festival dei giovani» o «Una ventata di novità, per il futuro della musica italiana», sono risultate, all'atto pratico, totalmente inesistenti. Ma iniziamo dalle canzoni. Dalla 'ventata di novità' portata dai giovani. Ogni nuova proposta si presenta accompagnata dal proprio mentore, ben preservato nella naftalina: Simona Molinari con Ornella Vanoni; Filippo Perbellini con Cocciante; Malika con Gino Paoli solo per citarne alcuni. Ogni canzone sembra scritta nello stile e nelle corde del mentore. Come si fa a parlare di novità. L'unica novità è stata portata dal personaggio 'manga' che è Arisa. Una canzone semplice e diretta, cantata, come recita il titolo, con grandissima sincerità. Senza movimenti inconsulti delle braccia (vedi Malika), senza ammiccamenti e faccette alla x factor (vedi quasi tutti), senza 'look sosia' (vedi Perbellini-Cocciante) e nonostante Lelio Luttazzi. Vittoria meritata (per una volta). Ma veniamo ora alla direzione. Tra una canzone e l'altra passano una quindicina di minuti: cinque tra presentazione e canzone, dieci di scenette patetiche. Una su tutte: il bacio tra Bonolis e quella vittima sacrificale di Laurenti, sfociato in una pantomima gay di cattivo gusto. Dopo che la sera prima, il buon presentatore aveva lasciato che il presidente dell'arcigay esternasse, a ragione, tutto il suo disappunto verso la canzone di Povia. Alla faccia del politicamente corretto. Ma il picco massimo di vergogna e disgusto si raggiunge quando 'bimbumbam' intervista Kevin Spacey. E. dopo una serie di inutili domande 'kiss ass', pensa bene di cantargli 'Imagine' di John Lennon. Nelle tre ore che sembra durare la raccapricciante esecuzione, l'espressione impassibile di mister Spacey è degna dei due Oscar vinti. Tanti ne ha dovuti vincere per affrontare questa prova. Alla fine, è la motivazione della performance a lasciare a bocca aperta. Voleva essere un regalo per un profondo ammiratore di Lennon quale è mister Spacey. A saperlo prima, sarebbe bastato non cantasse. Per di più Lennon non si sarebbe rigirato nella tomba come una trottola; io e tutta l'Italia pensante non ci saremmo vergognati di essere italiani. Un commento di un mio caro amico mi trova pienamente in sintonia:«Bonolis rappresenta tutto quello che odio di più in questo paese». Mentre, oserei aggiungere, il festival rappresenta l'Italia e chi la comanda. In finale nella categoria 'artisti' (perchè gli altri che sono?) sono arrivati: vaticano, camorra e massoneria. Indovinate un po' chi ha vinto...

giovedì 12 febbraio 2009

Sono più leggero. Non solo fisicamente, sento anche l'anima più leggera. Come se l'avessi liberata da una prigione.
Mi sono tagliato i dreadlocks e mi sono tolto delle cisti sebacee (così si chiamano) da viso, collo e orecchie.
Non da solo ovviamente. Sono andato dal mio barbiere (che già di per se è un'assurdità: ho i dreads da otto anni, come faccio ad avere un 'mio barbiere'?), che è in realtà il mio vecchio barbiere ma è anche il luogo dove esercita la mia estetista. Per questo ho continuato a frequentarlo negli anni. Non vi dico quando ho chiamato per prendere l'appuntamento. C'è mancato poco che gli venisse un infarto. Ha iniziato a urlare agli altri soci:«Lorenzo si taglia i capelli‼ Vi rendete conto, si taglia i capelli‼». E pensare che il mio barbiere è un posto fuori dal mondo. Un'isola senza tempo, o meglio ferma in un tempo di eleganza, cortesia e professionalità che non esistono più purtroppo. La notizia ha portato lo scompiglio anche in questo intramondo di tranquillità. Sono entrato accompagnato da mio fratello Franco che, da buon regista, ha voluto documentare visivamente l'evento, dal mio caro amico Alfi, che ha rinunciato a un super weekend a Riccione con super modelle pur di assistere e godere del taglio (li ha sempre odiati) e da Nilusha il mio assistente. Definire lo stato di Stefano, il barbiere, euforico sarebbe minimizzarlo. Non ho fatto in tempo a togliermi la giacca, che già ero posizionato davanti allo specchio con il grembiule girocollo addosso. Non ha voluto concedermi tempo per ripensamenti o dubbi, forbici in mano e sorriso sadico stampato ha iniziato da quelli davanti. Quelli che una volta tagliati, non si torna più indietro. Per un attimo la sensazione è stata sgradevole. Al quinto dread tagliato ho iniziato a sentirmi leggero. Una tranquillità interiore che raramente ho provato negli ultimi anni, mi ha gradualmente sommerso come un'alta marea. Pensavo che avrei fatto la fine di Sansone, ho sempre portato i capelli lunghi. Sono stato vittima del musical 'Hair' che, in tenera età, mi ha folgorato con musiche, colori e capelloni innamorati della vita e della libertà. Invece, più tagliava più sentivo di aver preso la giusta decisione (resto comunque fricchettone dentro). Quando hai i dreads, i capelli vengono convogliati a ciocche in una certa direzione. Mano mano che il tempo passa la direzione si consolida. Così quando li tagli, hai praticamente un cespuglio in testa con rametti che puntano direzioni diverse. Momento di panico terminato subito, grazie all'assistente di Stefano che arriva con balsamo super cremoso e pettine e inizia un lavoro di ammorbidimento del cespuglio. Alla fine del quale Stefano tagliuzza di qua e di là, aggiusta la lunghezza (cortezza in questo caso) e mi fa un megashampoo. Non sentivo due mani massaggiare il cuoio capelluto da troppo tempo. Un'estasi. Dopo avermi asciugato e frizionato a dovere con prodotti rivitalizzanti, Stefano mi ha guardato negli occhi e mi ha ringraziato a dovere:«Ho provato attimi di godimento unici, grazie dell'onore che mi hai concesso». Se ci riflettete un attimo, per un barbiere tagliare un metro di dreadlocks è una cosa più unica che rara. Può non capitare mai. Infatti ha voluto il servizio fotografico. Sto valutando se farglielo pagare il costo di un taglio...

Ne, ovviamente, mi sono tolto le cisti da solo. Per completare l'opera, tagliati i capelli, una mia cara amica e bravissimo chirurgo plastico del Bambin Gesù mi ha ricoverato per togliermi una serie di cistine di grasso sparse tra viso, orecchie e collo. Il problema è iniziato qualche tempo dopo l'incidente. Ogni tanto mi si formano delle cisti a causa dell'eccessiva produzione di sebo (grasso appunto). Probabilmente una reazione chimica di cellule impazzite, che accumulano sebo e lo portano dove non deve andare. Sono entrato di mattina per fare le analisi di routine: prelievo, elettrocardiogramma, radiografia al torace. Premetto che il reparto è nuovo e accogliente. Le stanze sono abbastanza grandi e l'atmosfera è rilassata e professionale. Connubio che non sempre funziona. Un'infermiera mi ha prelevato il sangue e ha cercato di farmi l'elettrocardiogramma senza successo. D'altronde sono in un ospedale per bimbi e i cavetti adesivi della macchina non attaccano sui peli di un trentottenne. Mi ha spedito, con tanto di foglio\richiesta, da una sua collega. Stanza 34. Due piani e un lunghissimo e freddissimo corridoio più sotto. L'elettrocardiogramma della collega è di quelli vecchio stile, con le ventosine e i palloncini. Funziona anche con gli uomini pelosi. Fatto questo sono andato in radiologia dove ho incontrato un infermiere molto simpatico. Che però non aveva ricevuto la richiesta dal reparto, che era invece arrivata al pronto soccorso. Molto cortesemente mi ha accompagnato nel labirinto di corridoi e porte fino alla radiologia del pronto soccorso (da solo chissà quanto avrei impiegato a trovarla) e mi ha lasciato in consegna a due suoi colleghi. I quali prima mi hanno chiesto se potevo stare in piedi per qualche minuto (...) poi, capita la situazione, mi hanno messo a sedere su un sedile di metallo parte di un macchinario radiografico. Hanno infilato una veste anti-raggi a Nilusha, che mi teneva in equilibrio sul metallico trespolo, e finalmente hanno scattato la foto al mio torace. Finiti gli esami, mi sono sdraiato sul letto per riposare. Mentre il mio compagno di stanza, un adolescente di Sulmona, veniva portato in sala operatoria. Tornato dopo due ore, operazione andata bene, ha iniziato a svegliarsi dall'anestesia. Si dice che il risveglio post-anestetico sia lo specchio dell'anima. Il carattere, se c'è, viene fuori. Il suo c'è e piuttosto incazzato direi: raramente ho sentito tante bestemmie e parolacce, che erano le uniche parole comprensibili in mezzo al dialetto, uscire dalla bocca di un ragazzino. Quei poveri genitori massacrati a male parole. Poi ho saputo che era la terza operazione, dopo che due precedenti erano andate male. Aveva tutte le ragioni del mondo per essere incazzato direi. Poco dopo il suo dolce risveglio è arrivato il mio turno. Patricia, la mia amica 'chirurga', è venuta a prendermi in stanza e mi ha portato in sala operatoria. Ho risposto alle domande di routine degli anestesisti (due addirittura!); hanno reso il tavolo operatorio più morbido, per salvaguardarmi da eventuali piaghe da decubito; mi hanno infilato un ago-cannula nel braccio e mi hanno abbattuto come un bisonte (i 5-10 secondi prima di cadere vittima dell'anestetico sono momenti indimenticabili, dove tutto perde importanza e conta solo quel vago benessere che lentamente ti avvolge). Perfetti! Dopo due ore e mezza mi sono svegliato nel letto della stanza, con Patricia che mi rassicurava e il sulmonese che bestemmiava. Aria di casa. Il giorno dopo, in tarda mattinata, mi hanno dimesso. Andasse sempre così liscia, sarebbe un piacere farsi ricoverare. Grazie Patricia, 10 e lode.

In summa, mi sento più leggero. Anche perchè, tra cisti e capelli, peserò un paio di chili in meno.



venerdì 16 gennaio 2009

Tornando al dito infetto.
Sono andato a ritirare le radiografie richieste dal dottore. Radiografie che, per fortuna, hanno scongiurato il pericolo di un osteomielite (infezione dell'osso), ma hanno evidenziato una lussazione palmare della seconda falange. Che chissà da quanto tempo me la porto dietro. Arrivo con qualche minuto di ritardo all'appuntamento col dottore e trovo l'ambulatorio vuoto. Torno verso la segreteria, dove avevo preso le radiografie, e chiedo se possono contattare il dott. Schiaramazzi. Lo trovano e gli dicono che sono lì. Si tratta di prendere un ascensore e scendere due piani. Ma lui non può, deve andare via. Lascia detto che mi potrebbe vedere il giorno dopo alle sette e mezza di mattina. Niente di più semplice per uno che ha bisogno di un'ora e mezza per prepararsi e due persone per scendere dal letto. In quel momento arriva in segreteria l'altro dottore che mi aveva visitato. Il dottor Dell'Uomo. Già, perchè erano in due. Non ne bastava uno per un'infezione a un dito. Aspetto, cortesemente, che abbia finito di interagire con la segretaria e lo fermo:«Scusi dottore, si ricorda del mio dito? Darebbe un'occhiata alle radiografie?»
«No guardi, lei non è un mio paziente, l'ha presa in carico Schiaramazzi.» risponde indietreggiando. Lo seguo e incalzo:
«Ma scusi, qual'è il problema se mi da un consiglio su come procedere con la cura?»
«Che io non ho tempo, ho altro da fare.».
Non ha tre minuti per guardare una radiografia che, tra l'altro, lui ha consigliato di fare. Rimango in silenzio mentre si allontana e sparisce dentro un corridoio. Il mio momentaneo accompagnatore, Enrico, gira la sedia a rotelle e ci avviamo verso l'uscita. Il problema è che a me sta montando una rabbia incontenibile, di quelle che se non le sfoghi subito rischi di avere la nausea nervosa per una settimana. Quindi sfogo. Torno indietro e inizio a inveire a trecentosessanta gradi, sperando in cuor mio di arrivare alle orecchie del dottore. L'onda sonora dei miei insulti investe le due segretarie e un portantino, che rimangono pietrificati come i busti del Pincio. Percorro lo stesso corridoio dove è passato il dottore e sbuco davanti al laboratorio analisi. «Lorenzo che succede?»
Finalmente una voce amica. La dottoressa del laboratorio mi conosce bene. Da anni faccio le analisi da loro. Le spiego concitatamente l'accaduto. Mi tranquillizza e guarda le radiografie. Per la lussazione non si può fare niente, per fortuna non sento dolore. Mi consiglia un antibiotico da prendere per bocca. Dopo quattro scatole, esce ancora pus. Stavolta riesco a far vedere la ferita a Patricia, una mia cara amica e un eccellente chirurgo. Decidiamo di medicare giornalmente il dito con un antibiotico mirato per il batterio che mi tormenta. Ora, dopo poche medicazioni, va già molto meglio. Con un ringraziamento speciale per la disponibilità e il sacrificio al dott. 'Ho il pranzo che mi aspetta devo andare' e al dott. 'Pover'Uomo'.

giovedì 1 gennaio 2009

E' Capodanno.
E' anche il mio trentottesimo compleanno.
Io odio il mio compleanno. Non si tratta del classico 'fa fico odiare il proprio compleanno', molto in voga presso una borghesia nichilista che mio malgrado conosco fin troppo bene, è piuttosto il frutto di una semplice equazione. Compiere gli anni uguale invecchiare. Qualunque sia l'età in questione, il tempo a disposizione diminuisce. Che cazzo ci sarà mai da festeggiare?
Per molti è un 'rito di passaggio' estremamente importante, ricco di riferimenti simbolici; a me sembra più un 'rito di avvicinamento' alla tomba. Inesorabile avvicinamento direi, soprattutto dopo una certa età. Detto questo, è bello passare l'ultimo dell'anno in compagnia degli amici più intimi, notare che il loro invecchiamento viaggia di pari passo col vostro e che se ne vanno ogni anno più presto, accusando stanchezza, acciacchi e difficoltà del caso. Se continua così, tra un po' non riusciremo neanche ad arrivare alla mezzanotte insieme.
E' Capodanno.
E' il mio maledettissimo compleanno.
Mi sento come il Palazzaccio.
Il Palazzo di Giustizia di Roma, detto il 'Palazzaccio', si porta dietro un'oscura leggenda. Si dice che l'architetto, una volta ultimata l'imponente costruzione, si sia accorto di alcune imperfezioni dovute a progetti sbagliati. Vinto dallo sdegno e dalla vergogna, è salito sul tetto dell'edificio e si è buttato di sotto, non prima di aver lanciato una maledizione secondo la quale il palazzo non sarebbe mai stato totalmente a posto (del resto cosa lo è in Italia). Per me si è tolto la vita dopo essersi reso conto della bruttezza di ciò che aveva costruito, fatto sta che così è stato. E' in perenne lavoro in corso.
Così mi sento io.
Sempre alle prese con qualche problema. Una piaghetta sul sedere, un'infezione a un dito, uno sfogo cutaneo. Mai completamente sano. In questo momento sono a letto, mentre il mio salotto è popolato di amici che ballano con tanto di dj. Io preservo il mio sedere ferito rintanato nelle mie stanze come un nobile in decadenza, gli amici giustamente ballano. Che sia anch'io vittima di una maledizione? Voglio continuare a pensare di no. Voglio pensare a qualcosa di bello. Voglio pensare al capodanno passato. Perchè ero più giovane di un anno. Perchè ero con l'unica persona che vorrei accanto in questo preciso istante. Buon anno.

p.s. la visione tragicomica del compleanno-capodanno va ben oltre la realtà dei fatti, ma io l'ho vista così.
probabilmente l'anno prossimo ricorderò quest'anno per gli stessi motivi.
la leggenda del palazzaccio potrei essermela inventata di sana pianta, è capodanno e si beve forte.