giovedì 22 maggio 2008

INSIDIE DI UN PICCOLO INTERVENTO Capitolo 6

Come ho accennato in un precedente capitolo, la scorsa estate sono volato in Germania per un operazione chirurgica alla vescica. Operazione conclusa felicemente dal Dott. Olianas (non finirò mai di ringraziarlo!) - di chiare origini sarde - che ha notevolmente migliorato la mia qualità di vita. In poche, semplici e chiare parole (spero), prive di qualsiasi informazione tecnica, vado a spiegare cos'è successo alla mia povera vescica: prima ne hanno ampliato la capienza con un pezzo di intestino tenue, poi, sempre usando l'intestino, hanno creato un piccolo condotto che parte dalla vescica e sbuca vicino all'ombelico. Ogni volta che sento lo stimolo della pipì: prendo un piccolo catetere - lo collego al tubo di una busta/raccoglitore - lo infilo dolcemente nel condotto - faccio pipì - sfilo il catetere e butto tutto nel cestino. Non prima di aver svuotato il contenuto della busta nel water. Sono stato chiaro? Detto così potrebbe sembrare un delirio, invece è tutto molto semplice. Per la mia salute è stata una svolta epocale, dopo due anni di problemi di cui scriverò in un altro momento. Qualche giorno fa, mi hanno ricoverato in day hospital nell'ospedale davanti casa per fare una piccola rettifica all'intervento germanico. Si trattava semplicemente di allargare la stomia (il buchetto) dove entra il catetere, che tende a cicatrizzarsi (la stomia non il catetere) rendendo impossibile l'operazione pipì. 

DAY ONE.

Mi sveglio alle otto. Miky arriva alle otto e mezza. In coma. Io ho dormito poco e male, per di più non posso fare colazione. Arrivo in ospedale alle nove e mezza: puntuale e a digiuno. Ho fame. Prendiamo l'ascensore e saliamo al secondo piano. Chiedo informazioni a una suora:«Dov'è Urologia?».
«In fondo al corridoio a sinistra».
Come due automi seguiamo le indicazioni alla lettera. Imbocchiamo il corridoio e svoltiamo in fondo a sinistra. Un portantino ci blocca:«Ndo và?».
«Urologia».
«N'è de qua. Deve tornà ndietro. Ao tutti de qua passate».
«La suora ha detto in fondo a sinistra».
«Se ma sinistra de qua». Indica una porticina che neanche un segugio avrebbe trovato, al di là della quale parte un lungo e stretto corridoio che porta al reparto. Miky mi trascina via un attimo prima che inizi a insultarlo. Scopro in seguito, che il maliziosetto mi ha fermato perchè transitavo nella zona 'pischelle' di quel reparto. Ma uno và in ospedale alle nove di mattina a 'spizzarsi' le ricoverate in Medicina Riabilitativa? Ma che perversione è? In fondo al corridoio troviamo la porta del reparto, chiusa. Suono il citofono. Esce una suora (un'altra) che mi dice di aspettare:«C'è la visita». In gergo vuol dire che è in corso il giro mattutino rituale del primario, accompagnato da una schiera di medici in totale sudditanza. Tale e quale al film "Prof. Guido Tersilli medico della mutua" con Alberto Sordi. Canticchio la celebre colonna sonora. Un signore in attesa sorride. A me, invece, girano le palle vorticosamente. Odio aspettare, soprattutto in ospedale. Sto già valutando l'ipotesi: prendi e torna a casa. Si riapre la porta, stavolta è un'infermiera. Mi fa segno di seguirla. Entro in medicheria, e con sommo piacere apprendo che il chirurgo vuole solo che faccia degli esami di routine: sangue, urina, e.c.g. (elettrocardiogramma) e poi posso andare a casa. L'intervento è fissato per domani. La notizia che non devo passare la notte in ospedale mi rincuora. L'infermiera mi preleva il sangue e mi lascia andare a fare colazione: cappuccino tiepido e cornetto per me; super tramezzino prosciutto-formaggio-spinaci e spremuta d'arance per Miky (buon sangue catanese non mente). Torno in reparto e una suorina (perchè minuta) indiana mi fa l'e.c.g.. Mentre attacca elettrodi e ventosine metalliche mi parla senza fermarsi mai, come se stesse recitando una preghiera, un mantra. Ripete l'esame tre volte, continuando con la sua cantilena che riesce quasi a farmi addormentare. Il bello, è che non ho capito una parola una di ciò che ha detto. Divertito, me ne torno pimpante in medicheria dove incontro l'infermiera di prima che mi spiega quello che succederà domani. Arriva anche il primario che legge le mie carte:«Complimenti Lorenzo, hai appena vinto un intervento chirurgico». Rido. «Vieni domani verso le nove e mezza». Strizza l'occhio e se ne và. Devo dire che, portantino a parte, sono stati tutti molto carini e disponibili. Uscendo passo a salutare mia madre, anche lei ricoverata per un'operazione all'anca (un lazzaretto di famiglia). Reparto: Medicina Riabilitativa reparto anziani. Qui non c'è nessun malizioso portantino a fermarmi. Anche perchè, se ci fosse, andrebbe rinchiuso. La mamma sta bene. La trovo in palestra, stesa su un lettino a fare esercizi con un fisioterapista. Altre sei signore, disposte su altrettanti lettini, si esibiscono in scoordinati movimenti di gambe, anche e bacino. Mentre l'altro terapista zompetta di paziente in paziente impartendo ordini e controllando l'andamento dei vari esercizi.
«Fabio ne ho già fatte venti, mi posso riposà?»
«Venti come signora Serafini?»
«Come m'hai detto te, guarda».
La signora spinge con le gambe piegate cercando di alzare il bacino, tra sforzi disumani che la rendono paonazza. Il bacino si alza impercettibilmente, prima di riafflosciarsi sul lettino insieme alle gambe, che ora ricordano quelle di una rana a pancia all'aria. 
«Si, proprio come le ho detto io. Ne faccia altre venti signora Serafini».
Mi guardano come fossi un alieno. Mi avvicino a mia madre che mi presenta il fisioterapista, che zompetta verso un altro lettino. Ma non saranno pochi due per tutte queste signore? Accanto a me seduta su una fatiscente carrozzina ospedaliera, una signora molto anziana mi fissa con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Aspetto che da un momento all'altro mi dica:«Ricordati che devi morire!». Come nel film 'Non ci resta che piangere'. Per fortuna non lo fa. Continua però a fissarmi finchè non me ne vado. Accompagno mia madre, che nel frattempo si è alzata e ha inforcato le stampelle, nella sua stanza. Vuole che le porti un cucciolo del mio cane, che ha appena partorito, in ospedale. Provvederò. Torno a casa fiducioso e, per una volta, convinto di aver fatto la scelta giusta.  

DAY TWO.

La scena della mattina precedente si ripete tale e quale. Io non ho dormito, Miky è in coma. Mi sento come Bill Murray in 'Groundhog day' (sono tutto citazioni cinefile oggi), l'unica differenza è che posso fare colazione. Arrivo in reparto sempre puntuale (a volte mi sorprendo da solo!) e già mangiato (come direbbe Verdone). La stessa infermiera simpatica del giorno prima mi accoglie e, insieme a Miky, mi sistema sul letto. Mi spogliano dei vestiti per infilarmi la classica palandrana verde ospedale, in puro tessuto acrilico. E' talmente fina, che solo a guardarla vengono i brividi di freddo. In realtà tiene un caldo insopportabile. Chimico. Arriva un altro infermiere, e con tutto il letto mi portano in sala operatoria. Incontro l'anestesista, una bella donna, che mi infila un ago-cannula nel braccio e mi fa alcune domande di routine. Più le solite domande sull'incidente: com'è successo; dov'è successo; quand'è successo e, nei casi più estremi, perchè è successo. Bella domanda del cazzo. Arriva il momento del tanto atteso intervento e delle insidie che in verità nasconde. Il primo problema che, immancabilmente, si presenta puntuale all'appuntamento riguarda il 'tavolo operatorio'. Solo il nome, evoca immagini di guerre di secessione. Feriti maciullati posti su tavolacci di legno, alla mercè di chirurghi improvvisati muniti di seghe arrugginite. Faccio notare che c'è un problema. 
Non posso sdraiarmi su una superficie dura. Nessun para-tetraplegico può. A meno che non sia notevolmente in carne. Cinque minuti su quel tavolo equivalgono a sei mesi sul letto di casa a pancia sotto, con una piaga da decubito all'osso sacro. Mi rivolgo alla suora caposala, che sta organizzando il trasferimento da letto a tavolo, e al chirurgo.
Io:«Il tavolo è troppo duro. Rischio di farmi male».
Suora:«Non abbiamo materassini. Dai dai, tanto dura poco, non possiamo aspettare».
Chirurgo:«Tranquillo Lorenzo, in mezz'oretta abbiamo fatto».
Io:«Sentite! Io la sopra senza protezione non ci vado. O mettete un materassino, o potete tranquillamente passare al prossimo intervento».

Silenzio.

Irrompe, con tempismo perfetto, una delle infermiere di sala con tre cuscini, che vengono posizionati in fila a formare un piccolo materasso (e ci voleva tanto⁉). Salvando la situazione che si era fatta pesante. Mi trasferiscono sull'altare sacrificale e iniziano i preparativi. Tra le altre cose, un infermiere si arma di rasoio e mi tricotomizza la pancia. Cioè mi rade completamente da sopra l'ombelico fino al pube. La cosa mi insospettisce. La parte che devono operare si trova in basso a destra rispetto all'ombelico. E' piccolo il pertugio da allargare, perchè mi rade completamente? Sto per trasformare il pensiero in suono quando sento il chirurgo e il suo aiuto parlottare dell'operazione.
Chirurgo: «Hai capito allora di che si tratta?»
Aiuto: «No, spiegami».
Chirurgo: «Dobbiamo aprire l'ombelico e allarg....».
Io: «L'ombelico di chi dovete aprire⁇».
Chirurgo: «Ma il tuo medico tedesco ha parlato di ombelico».
Io:«No dottore, vicino all'ombelico. L'abbiamo visto insieme quando mi ha visitato, ricorda?».
Chirurgo: «Oddio Lorenzo mi devi scusare, mi sono confuso».

Silenzio. 

Mi sono confuso⁇ Ma che risposta è? In questo caso devo ringraziare la mia condizione. Non ho sensibilità cutanea nell'ottanta per cento del corpo. Non ho bisogno di anestesia totale in questo caso, solo locale. Immagino la scena se fossi stato sedato totalmente: il chirurgo mi fa svegliare nel bel mezzo dell'intervento chiedendo che cosa esattamente debba farci col mio ombelico, tenendolo sospeso per aria con una pinza. 
Durante l'operazione l'anestesista mi offre del valium, che saggiamente rifiuto. Visto l'andazzo, meglio essere lucidi e vigili. Finisce tutto bene. Accetto anche del tranquillante, perchè ho un po' di dolori e, di conseguenza, mi si sta alzando la pressione. Il mondo diventa immediatamente più soffice, più morbido. Torno in stanza e dormicchio parte del pomeriggio. Alle sei, dopo aver testato la funzionalità della rettifica, e con il benestare dei medici, me ne torno a casa. Saluto l'infermiera simpatica e un'altra sud-americana che, dopo aver tessuto le lodi delle donne latine, si offre come eventuale accompagnatrice, se dovesse servire. Intanto ci accompagna all'ascensore di servizio: infila la chiave e ci assicura che il suddetto sbuca davanti a una delle uscite. Ci ritroviamo davanti a tre porte arancioni serrate. L'ascensore non possiamo riprenderlo perchè funziona solo con la chiave. Siamo costretti, anzi Miky è costretto, a imbracciare le manovelle della carrozzina e, a marcia indietro, salire gradino per gradino due belle rampe di scale. Arrivati in cima, lancia una serie di maledizioni in dialetto che il woodoo in confronto diventa un giochino per bimbi. Usciamo finalmente dall'ospedale stanchi (io ancora un po' narcotizzato in verità) ma felici che tutto sia andato per il verso giusto, stavolta. Come non detto. La notte sono costretto a chiamare il dottore perchè il catetere non entra. Per fortuna è solo un grumo di sangue che dopo un po' cede. Che fatica però.