venerdì 21 marzo 2008

ACCESSIBILITA' ZERO Capitolo 3

Il concetto di accessibilità in Italia non è ancora stato ben recepito. Tutti i locali e gli esercizi pubblici quali ristoranti, cinema, musei, ministeri, ospedali, asl, discoteche, biblioteche (e chi più ne ha più ne metta), devono essere accessibili. Ovvero, devono avere i requisiti necessari per rendere agevole l'ingresso e la deambulazione di un disabile munito di sedia a rotelle. Fino a qui più o meno ci siamo. A parte qualche eccezione, tutti si sono adeguati. Provvedendo a montare montascale, a costruire bagni adatti e a eliminare barriere architettoniche. Quello che ancora non è stato afferrato è che il disabile deve poter arrivare da solo, entrare da solo, girare da solo e infine uscire da solo dal posto visitato. Quindi strade, zone limitrofe e parcheggi devono favorirne andata e ritorno. Oltre naturalmente agli interni, che devono essere 'visitabili' nella loro interezza. E' una questione di integrazione sociale, di diritto civico. Ecco. Metti, allora, una mattinata al museo Vittoriano. Solo per arrivarci bisogna attraversare Piazza Venezia. I sampietrini che la pavimentano sono talmente disastrati, che sembra di percorrere una pista da motocross. La mia schiena, già ben disastrata di suo, ringrazia. Davanti al museo, un piccolo piazzale fa da parcheggio riservato. A chi non si sa. Evidentemente non a veicoli per disabili. E' occupato infatti da macchine blu. Parcheggiamo il furgone bloccandone una. Di colpo si materializza un vigile urbano. Si avvicina al finestrino e dice:«Mi faccia la cortesia, parcheggi sulle strisce vicino al gabbiotto che tra poco mi esce l'assessore». Lo guardo esterrefatto. «Non si preoccupi, la controllo io». Vorrei vedere, mi stai facendo infrangere la legge. Alla fine lo assecondiamo malvolentieri.  Miky mi aiuta a scendere e ci avviamo verso il museo. Un'impalcatura metallica, sulla destra rispetto all'entrata, sorregge quattro pedane che permettono l'arrampicata fino al portone d'ingresso. Il problema è che per raggiungerle, è necessario superare un 'gradone' di trentacinque centimetri di altezza. Dove naturalmente non c'è neanche l'ombra di una pedana. Mi sembra di vederli gli operai e l'ingegnere, tronfi e soddisfatti, farsi fotografare in posa di fronte all'opera di bene compiuta. Con in primo piano in basso il 'gradone', lasciato nella sua inaccessibile solitudine. Come chiedere a tali geni di compiere lo sforzo fisico e cerebrale di piazzare mezzo metro di rampa anche lì? Sarebbe stato indubbiamente troppo. Supero, con l'aiuto di Miky, l'ostacolo di travertino antico e mi arrampico sulle pedane che neanche il paraplegico più in forma riuscirebbe a conquistare da solo. In cima trovo un treppiede di legno con sopra il poster promozionale della prossima mostra (che originali..) a sbarrare il passaggio. Lo sbatto violentemente contro il muro (questo si riesco a farlo da solo!) e mi avvicino al bancone della biglietteria. Un inserviente si fionda a spostare il treppiede. Facciamo un biglietto ridotto in due. L'accompagnatore entra gratis e il disabile paga il ridotto o viceversa, non ho capito bene. Vengo indirizzato verso un orrendamente lento montascale, che mi porta al di là di una piccola scalinata. Dalla parte opposta un identico montascale su un'identica scalinata permette l'uscita alla fine del giro. «Cortesemente dovrebbe uscire da questa parte a fine mostra» dice l'inserviente «sa l'altro montascale è temporaneamente fuoriuso». 
«Temporaneamente quanto?» chiedo.
«Abbiamo già contattato il fornitore, qualche giorno credo».
«Guardi che vengo a controllare» stuzzico.
«Sicuramente lo troverà funzionante» ribatte fermo ma rilassato. Gli credo. Mi indica la strada per arrivare all'ascensore. Superiamo un'altra rampa rivestita di moquette, più ripida delle prime e piena di dossi. Entriamo e iniziamo a salire.  Miky è paonazzo e ha il fiatone. Io pregusto già gli ampi spazi aperti in cui potrò muovermi a mio piacimento, in mezzo a un estasi di colori e sensazioni d'altri tempi. L'ascensore ci vomita in mezzo alla stanza buia dove proiettano la vita dell'artista. Oscuriamo per un attimo la visuale di alcuni spettatori, che sono costretti a spostare le sedie per farci passare. Finalmente faccio il mio ingresso nella mostra vera e propria, trovandomi subito davanti a un grande corridoio in salita. Tutta la prima parte dell'esposizione è in salita. Sul lato sinistro si aprono due piccole stanze a cui si accede mediante rampette corte e ripidissime. In cima alla salita si entra nell'ampia sala principale del museo. Il primo luogo realmente accessibile di tutta la struttura. Mi godo l'agognata libertà. Posso girare a mio piacimento di opera in opera, con la leggiadria di un pattinatore sul ghiaccio. Mi sento bene. Mi sento uguale. Anzi, mi sento proprio fico con la mia super carrozzina. Finchè non decido di salire al secondo piano. Non c'è l'ascensore. Ci aspettano due lunghissime rampe che salgono costeggiando due lati del salone. Miky è di nuovo paonazzo. Dura poco però. Al ritorno scivola e gli sfuggono le maniglie della carrozzina. Parto in discesa come un proiettile. Riesco a fermarmi prima di investire un inserviente e schiantarmi contro una parete di cartongesso. Miky è bianco come un cadavere. Guarda l'inserviente in cagnesco:«Ma una minchia di ascensore no eh?». Torniamo verso l'entrata percorrendo il giro 'contromano'. Passiamo in mezzo a gruppi di visitatori che si aprono come le acque di fronte a Mosè. Un po' per timore reverenziale (oddio una carrozzina!), e un po' perchè non vogliono rimetterci un piede. Ripetiamo la scenetta iniziale nella stanza della proiezione e ci infiliamo in ascensore. Scendiamo lentamente lungo la rampa a dossi, per non correre rischi. Risalgo poi sul montascale che, altrettanto lentamente (sembra peggiorato), mi porta all'uscita. Altro che mostra, mi sembra di essere uscito da una puntata di giochi senza frontiere. Sono stanco. Arrivo davanti al furgone. Sul parabrezza, sotto a un tergicristallo trovo una multa per divieto di sosta. Il gabbiotto è desolatamente vuoto. 'La controllo io' è sparito nel nulla. Questa la paga l'assessore.                                                                                                                                  

mercoledì 19 marzo 2008

L'OTORINOLARINGOIATRA Capitolo 2

Qualche giorno fa mi si sono tappate le orecchie. Insieme, all'unisono. Neanche lo avessero pianificato a tavolino. La governante è riuscita a svegliarmi solo a forza di violenti scossoni. Ha ululato il mio nome per cinque minuti buoni. Pensava fossi morto. Era abituata a trovarmi già sveglio al suo arrivo in camera. Sono sicuro che il tappo alle orecchie sia una conseguenza del catarro accumulato grazie alla bronchite. So anche che mi tocca andare dall'otorinolaringoiatra per una sciacquata mediante siringone. Così, per avvantaggiarmi, inizio a mettere delle gocce di cerulisina. Una sostanza lubrificante e compattante che favorisce la pulizia. Come mi avevano insegnato gli otorini con cui avevo avuto a che fare in precedenza. Dopo due giorni di sordità semi totale, terribile sensazione, provo a contattare uno studio medico dove ero già stato. Niente da fare. Per la visita avrei dovuto aspettare tre giorni. Troppi. Per uno che lavora con le orecchie, non sentire è l'incubo peggiore. Figurarsi per me, che mi sono rimaste solo quelle. Decido allora di affidarmi alle sottovalutate pagine gialle, trovando una pagina gialla piena di numeri e annunci a lettere cubitali. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Provo prima a chiamare gli studi più vicini a casa. Con scarso successo. Uno è al quarto piano senza ascensore. Impossibile con la sedia a rotelle. All'altro risponde una segreteria che sembra più quella di una casa privata che di uno studio medico. Alla fine  scelgo il vecchio metodo 'per ordine alfabetico'. A come Dr. Acquaviva. Il primo della lista. Chiamo e spiego al dottore la situazione. «Chiami questo numero» risponde lui «dica alla signorina di infilarla anche se non c'è posto, tanto si tratta di una cosa veloce». Era il numero di uno studio medico all'eur. Non troppo lontano da casa. Prendo appuntamento per le tre. Arrivo puntuale e parcheggio, o meglio il mio assistente parcheggia, di fianco a un cassonetto che occupa un posto riservato ai disabili. In effetti a guardarlo è proprio malandato. Ne ha quasi più diritto lui. L'ingresso dello studio è perfettamente accessibile a parte la doppia porta un po' scomoda. Mi fanno accomodare (...) nella sala d'aspetto. Asettica, mattonelle bianche a terra, muri bianchi con appese le solite stampe di vedute dai tetti delle case (ma le fanno apposta per gli studi medici?) e una sfilza di poltroncine finta pelle degne di una sala d'attesa aeroportuale. Inquietantemente vuota. Su una parete giganteggia una lastra di plastica trasparente con su scritte tutte le prestazioni e le visite ambulatoriali che si possono effettuare nello studio. Quattro colonne di specialità mediche. Quasi tutto. Inizio a preoccuparmi. Dopo una ventina di minuti la segretaria mi chiama ad alta voce, nonostante sia l'unico nella sala, e mi conduce nella stanza del dottore. Il posto non è grande. Attraversiamo un corridoio con alcune stanze chiuse e arriviamo in fondo. L'ultima porta si apre. «Salve dottore» saluto entrando. «Salve, prego le faccio spazio» risponde lui spostando una sedia. Racconto di nuovo brevemente il mio problema mentre lui, seduto dietro la scrivania, rovista dentro un cassetto. «Chi le ha dato il mio numero?» chiede continuando a ravanare. Rispondo sinceramente: «E' il primo nome sulle pagine gialle». «Ha trovato il migliore» conclude e si avvicina agli strumenti alla mia sinistra. Ora sono decisamente preoccupato. Si infila in testa la fascia di plastica rigida con la luce al centro e, mediante un conetto argentato mi guarda dentro l'orecchio. L'otorino è in realtà una sorta di speleologo, con tanto di faretto in testa. Alla scoperta dei cavernosi condotti uditivi, e di ciò che ci si trova all'interno. Riemerso dall'esplorazione dice: «In effetti sembra un po' sporco, facciamo un lavaggio». Agguanta il siringone metallico lo riempie d'acqua tiepida e facendosi tenere il fagiolo (piccola bacinella metallica) dal mio assistente, spara l'onda pulitrice. Che và a finire ovunque tranne che nel fagiolo. Per poi immergersi di nuovo, stavolta munito di pinzette e attrezzini vari. Quest'operazione si ripete per cinque o sei volte, tra commenti poco rassicuranti: «L'acqua esce pulita, non è un buon segno. Il cerume è finito». «Non capisco, sembra pelle morta». «E' tutto infiammato, c'è un otite». Continuo a non sentire niente. All'improvviso si fulmina la lampadina del faretto. Il dottore ricomincia a rovistare nel cassetto della scrivania, da dove escono una serie di mini lampadine di diversa forma. Ne prova un paio, manipolando il voltaggio del trasformatore senza successo. Esce dalla stanza e chiede a un altro medico, probabilmente il titolare dello studio, se ci sono lampadine. Altro insuccesso. Alla fine spedisce una delle segretarie all'elettronica di zona. Intanto continua l'operazione con l'aiuto di un aggeggino autoilluminante da visita a domicilio. Continua a spruzzare acqua. Continuo a non sentire niente. Il dottore inizia a sudare. Mi domando se riacquisterò mai l'udito. Rientra la segretaria con le lampadine nuove. Funzionano. L'oto-speleologo si tuffa di nuovo nell'antro misterioso. Al ventesimo lavaggio esclama: «Ecco ci siamo!». Prende una pinza e all'improvviso il mio orecchio si stappa. Sento come non ho mai sentito prima d'ora. Se ci fossero delle formiche, ne sentirei lo zampettio. Mi volto verso il dottore che mi mostra con soddisfazione, come fosse un trofeo, quello che è uscito dall'orecchio. Una palletta di pelle morta e non so cos'altro della grandezza di un nocciolo di prugna. Un ovetto alieno che si sarebbe impadronito a breve del mio cervello, e avrebbe infestato le orecchie di tutto il genere umano. Doveva essere la conseguenza di un otite curata male. «E ora diamo un'occhiata all'altro orecchio». L'espressione è di chi sta salendo sul patibolo. Comunque riesce a svelare anche i misteri della nuova caverna uditiva. Esorcizzandola, dopo ripetuti lavaggi, dalla creatura aliena. «Sembrava cemento» è l'ultimo commento del dottore. La visita 'tanto è una cosa veloce' si è trasformata in un combattimento di un'ora. Mi congeda con una cura a base di gocce antibiotiche da fare per una settimana. E una prevenzione da fare una volta a settimana per il resto della vita. In modo che il problema non si ripresenti. «Arrivederci dottore» saluto uscendo. «Arrivederci. Adesso devo farmi una doccia». E bravo il dottor Acquaviva. Nonostante le difficoltà, la mia perenne mancanza di fiducia verso i medici e le sue battute ironiche, ha vinto e convinto. Me ne torno a casa bagnato come un pulcino (la doccia l'ha fatta a me!) ma felice. Grazie dottò.   Te tocca pure la prossima visita, se mi ritrovo il numero...Avventuroso.                     

lunedì 10 marzo 2008

VITA DA DISABILE Capitolo 1

Ore 9:30. Stamattina sono stato visitato da un dermatologo. Dopo quindici giorni di antibiotici e cortisone per curare una bronchite, mi sono svegliato con un super sfogo inguinale e una ferita su una coscia che assomiglia tanto a una bruciatura. Che chiaramente non ricordo di essermi fatto. Il dottore decreta, dopo un'attenta visita con una lente d'ingrandimento tonda con l'intera circonferenza costellata di lucette (troppo fica, la voglio!), che le bolle all'inguine "è candida da antibiotico" e la bruciatura è effettivamente una bruciatura. Possibilmente provocata dal contatto con un oggetto bollente o da acido muriatico. Che mi sembra la spiegazione più plausibile, visto che ogni mattina lo uso al posto del sapone...Ma passiamo alla cura.
Per quanto riguarda l'ustione: sciogliere una pillola di Permanganato di Potassio in due litri d'acqua e fare due impacchi al giorno di dieci minuti ciascuno. Tenere la bottiglia al buio altrimenti perde il potere rigenerativo e assicurarsi che nessuno ne beva un sorso per sbaglio. Sarebbe l'ultimo. Di seguito applicare del Sofargen, una pomata che contiene argento, stimola la ricrescita dei tessuti e costa di più.
Per quanto riguarda l'inguine: sciogliere una bustina di Acido Borico (g.30)+ Acido Salicidico (g.1), da far preparare in farmacia perchè non esiste in commercio, in un litro e mezzo d'acqua. Rinnovare l'alchemico intruglio ogni sette giorni perchè va a male. Almeno non uccide. Fare un impacco al giorno (uno solo, m'ha detto bene!). Praticamente devo incamiciarmi le palle e parte del pisello. Applicare di seguito una polvere che sembra talco, ma talco non è. Per toglierla devo quasi scartavetrarmi i coglioni sotto la doccia. 
Ore 10:00. Il dottore va via dopo essersi fatto pagare. Sessanta euro, onesto. Tiro su lo schienale del mio super letto elettrico, munito di quattro motori. Uno per ogni movimento. Ma non ne bastava uno per tutti⁇ Dicevo, tiro su lo schienale per fare colazione e inizio a sentire come il rumore di un vetro che scricchiola. Mi fermo di colpo e torno giù, chiedendo alla mia governante Erica di vedere cosa succede. Succede che a scricchiolare era il mio telefonino, caduto inavvertitamente in mezzo agli ingranaggi del letto. Risultato: vetro spaccato, scocca pesantemente ammaccata e panico. "Oddio la rubrica‼". Erano giorni che ripetevo a me stesso di copiarla nel computer. Ma non l'avevo ancora fatto (coglione, l'impacco nel cervello lo dovrei fare!). Per fortuna il telefono è ancora acceso. Mando di corsa Erica all'assistenza Nokia che ho sotto casa, dandole il permesso di approfittarsi bassamente della mia disabilità. Al grido: "Digli che l'apparecchio appartiene a un disabile e che morirà se non gli salvate la rubrica". Alla fine hanno salvato telefono e rubrica, approfittandosene bassamente (loro!). Novanta euro.
Ore 10:10. L'infermiera non arriverà prima di mezz'ora. Ho il tempo di fare l'areosol, che mi tocca due volte al giorno per via della bronchite. L'unico inconveniente è che essendo l'aggeggio un po' vecchiotto, quando lo accendi fa lo stesso rumore di un aereo in fase di decollo. Piacevole.
Ore 10:30. Arriva l'infermiera, nuova. Con tanto di nuove disposizioni della Asl in merito all'assistenza domiciliare. D'ora in poi sia il lavaggio corporeo che lo svuotamento rettale si fanno a letto, tre volte a settimana. Niente doccia ne w.c. a meno che non ci sia qualcuno che mi aiuti a sedere sulla sedia detta 'comoda' fatta apposta. Che tutto è, fuorchè comoda. Motivo? "Se mi faccio male chi mi paga?". Aveva immediatamente fatto sue le nuove disposizioni. Già, e se mi faccio male io? E se non mi va di cacare a letto? E se ho voglia di fare una doccia?
"Ma lei che fa la mattina, caca nel letto prima di uscire?" chiedo polemico.
"Se vuole discutere chiami la Asl, io non c'entro niente" risponde lei.
"Quindi praticamente la pagano per guardarmi".
"Se rimane a letto l'aiuto".
"E le medicazioni?"
"Per quelle ci vuole la visita del medico".
"Arrivederci!". 
Non ho nemmeno firmato il suo foglio presenze. Così non la pagano. Per poi intrattenermi un'ora al telefono con la caposala del centro assistenza domiciliare (C.A.D.). Inveendo contro le nuove disposizioni medievali. Senza trovare il minimo barlume d'intelletto nelle sue risposte, attacco. Tanto, nella sfiga, sono un ragazzo fortunato. Posso permettermi un assistente tutto fare in grado di aiutarmi in qualsiasi situazione. Cosa farei senza il buon Miky. Made in Catania, un pezzo di marcantonio sempre al mio fianco.
Ore 11:45. Squilla il telefono. E' Miky, ha trentanove di febbre e ha vomitato tutta la notte.
Che vita!