mercoledì 17 dicembre 2008

Rieccomi qua. Per i pochi (ma buoni) 'aficionados', scusate l'assenza. Non succederà più, o quasi. Diciamo che ho avuto il 'blocco dello scrittore' che ancora non sono. Il che è abbastanza curioso. Come si fa ad avere difficoltà a fare qualcosa che ancora non si sa fare? Probabilmente Freud avrebbe scritto un trattato in merito:"L'inconscio e le doti innate dell'essere" o, più semplicemente, "Come incartarsi da soli"; io spero solo di aver superato il momento di 'empasse'.
Oggi mi è successa una cosa degna di nota. E' qualche anno ormai che nei periodi di stress, durante la notte mentre dormo pesantemente (le poche volte che succede), mi mangio un dito. Si, avete capito bene. Precisamente una nocca dell'anulare della mano destra. Lo faccio inconsciamente (vedi Freud), e certe volte mi sveglio con la nocca ancora in bocca. La cosa è anche un minimo splatter, dato che mi ritrovo sporco di sangue rappreso come un vampiro dopo una notte di baldoria. Circa un mese fa, dopo una bella mangiatina notturna, mi sono svegliato con il dito gonfio e un'infezione con tanto di pus (dai e dai...). Sono andato dalla dottoressa, brava e anche molto bella, che da un po' si occupa, con grande successo, delle mie piaghette da decubito. Mi ha dato una cura a base di antibiotici e polvere disinfettante. Dopo cinque giorni il dito si era sgonfiato e la ferita aveva fatto la crosta. Il problema sembrava risolto, ma due giorni dopo aver smesso la terapia antibiotica il dito si è gonfiato di nuovo e ha buttato pus. Abbiamo riprovato, sempre con antibiotici ma in dose più massiccia, mettendo il dito a mollo in acqua e sale due volte al giorno. Risultato: dito meno infiammato ma sempre gonfio e infetto. Si era formata una piccola fistola interna che si infettava in continuazione. La ferita si chiudeva superficialmente, ma sotto il pus aveva scavato una caverna che arrivava fino all'osso. Oggi sarei dovuto andare al CPO di Ostia dalla mia dottoressa (quella brava e bella) per capire cosa fare, ma la pioggia battente e un inizio di influenza mi hanno fermato. Ho deciso allora, viste le pessime condizioni dell'inerme prensile terminazione, di prendere appuntamento con un chirurgo dermatologo all'ospedale che ho di fronte casa. Alle due e mezza esco, arrivo al cancello del condominio e di colpo mi scende la pressione sotto le scarpe. Vedo tutto bianco, sento il rumore delle macchine ma non vedo niente. Con un filo di voce e a meno di un passo dalla perdita di coscienza riesco a dire:«Sto svenendo portami a casa di corsa». Enrico, il mio nuovo e momentaneo assistente, si spaventa. E' la prima volta che gli capita di vedermi così e l'unica cosa che mi ripete mentre spinge la carrozzina è:«Ti prego non svenire». Arriviamo davanti al cancelletto del mio giardino:«Che faccio ora??».
«Letto», continuo a vedere bianco ma, stranamente, non svengo. Sul letto mi risale la pressione, con il tipico suono di rubinetti aperti nelle orecchie (mai provato?). Mi riposo un attimo e prendo delle gocce per tenerla su. Credo che il malore sia legato all'influenza. Arrivo all'appuntamento con un po' di ritardo. Anche perchè l'accesso all'ospedale non è dei più agevoli. L'uscita si trova proprio sulla via dove abito. Il problema è che bisogna attendere l'arrivo di una macchina che inneschi il sistema di apertura, che si trova sotto l'asfalto qualche metro prima della sbarra. Quando è chiusa non c'è spazio sufficiente per il passaggio di una carrozzina. La cosa buffa è che pur vedendo perfettamente dove si aziona l'apertura, l'unico modo per innescarla è passarci sopra con una ruota. Non importa se carrozzina, automobile o bicicletta purchè rotoli. Se provi a saltarci sopra non succede nulla. Misteri tecnologici. La segretaria delle visite ambulatoriali mi indica la stanza:«Stanza quattro!», esclama, neanche fossimo a cinecittà. Sono l'unico in sala d'attesa, che non è mai un buon segno. Arriva il medico. Racconto brevemente la storia del mio povero anulare. L'infermiera toglie il cerotto e il dottore, dopo aver visionato la situazione, prende una pinza sterile e inizia a cacciarmela dentro il buchino per capire la grandezza della caverna. La infila per quasi due centimetri dentro, rovistando intorno e raschiando l'osso. Passa un minuto e il dottore, mentre continua a rovistare, mi guarda e chiede:«Le fa male?». Lo guardo anch'io per qualche secondo. Giusto il tempo di pensare. Certo che non mi fa male. Per fortuna (...) non ho sensibilità su quel dito, altrimenti il suono delle urla sarebbe rimbalzato per tutto l'ospedale. Magari lo dovrebbe chiedere prima se fa male ai pazienti, e non dopo avergli arato un dito con un pezzo di ferro. Arriva anche un altro medico e insieme decidono che devo aspettare che si riformi il pus per analizzarlo e trovare l'antibiotico adatto al tipo di batterio. Mi incerottano di nuovo e mi congedano cordialmente. Torno dalla segretaria che, cordialmente, mi presenta il conto: cento euro per tre minuti e mezzo di visita. Cordiali Saluti.

venerdì 7 novembre 2008

Arriva alle nove e mezza, puntuale. Mio fratello si è appena seduto accanto al mio letto con una bel piatto di rigatoni alla carbonara tra le mani, quando suona il citofono. Torna in cucina, apre e grida:«E’ Sabi». E’ venuta a prendere un libro che le ho comprato. In realtà è una scusa come un’altra per vederci e cercare di dirci addio una volta per tutte. Un anno che non stiamo più insieme, ma non riusciamo a separarci per più di due mesi. Ogni volta deve essere l’ultima, poi non lo è mai. Questa volta si, siamo più determinati. E’ veramente un addio, lo sento nell’aria. L’affetto è tanto, troppo forse, ma non dipende da quello. Da cosa veramente dipenda, non l’ho ancora ben capito.
Passiamo una serata tranquilla, parlando di quanto non ci va di lavorare; di quanto sarebbe salutare un bel viaggetto di un paio di mesi; del fatto che entrambi stiamo attraversando un periodo di grande fragilità emotiva. Qualsiasi cosa ci fa piangere. Giochiamo a backgammon. Non è capace quindi vince la prima sfida (la solita fortuna del principiante) con i miei preziosi consigli. La seconda la perde, senza i miei consigli, e ci va in puzza. Mi diverto, sto bene, vorrei che questa serata durasse in eterno. Dice che deve andare via, la aspettano. Le faccio leggere una lettera. Non è indirizzata a lei, solo ci tengo che la legga. Piange. Forse ha letto qualcosa di me che non conosceva. Un pezzo della mia storia. Chiama gli amici e dice che farà tardi. Mi abbraccia forte, a lungo. Quasi non respiro più, il mio viso schiacciato sul suo collo me lo impedisce, ma non importa. Sarebbe una bella morte, tra le sue braccia. Senza accorgercene ci baciamo. Con grande naturalezza, mandiamo in frantumi contro gli scogli il bastimento carico di buone intenzioni che avevamo sapientemente tenuto al largo fino a quel momento.
E’ bellissimo. Carico di affetto, passione, paura. Almeno per me. Ma è l’ultimo, lo so. Lo sento. Per questo cerco di assaporarne ogni attimo, ogni sensazione, ogni gusto. Per questo non riesco a smettere e neanche lei. Dopo un tempo che non saprei definire, potrebbe essere passato un secondo come un secolo, ci stacchiamo. Sconvolti, senza parlare ci guardiamo. Lei si aggiusta i capelli fallendo miseramente, sembra aver preso la scossa. Più cerca di aggiustarli più sembra una pazza scappata da un manicomio. Sorrido. Sembra un fumetto. «Meglio se vado adesso,» dice. Lo penso anch’io. Non la trattengo e non mi sento male come le altre volte, quando la guardo uscire dalla mia stanza. Ho combattuto tanto per recuperare questo rapporto, sono stanco. La mia mente ha accettato il fatto che non c’è niente da fare e ha incassato la sconfitta. Non ho più lacrime da spendere e non ho nulla da rimproverarmi. Ho fatto e dato tutto quello che potevo. Sono sereno. Mi mancherà da morire e spero che la vita le dia tutto ciò che cerca. La mia vita ricomincia il suo viaggio ora. Soffia di nuovo il vento dell’incertezza e, a vele spiegate, solco ancora il mare dell’ignoto alla ricerca di nuovi atolli incontaminati. E’ bellissimo…

sabato 4 ottobre 2008

Roma, 3 Ottobre 2008

La terra fangosa del campo si attacca agli scarpini come una colla. Si attacca ovunque. Salta e si spiaccica sui corpi sudati e confusamente intrecciati degli altri giocatori. L’odore pungente della vegetazione intorno al campo, si mescola con quello inconfondibile delle magliette originali appena lavate che ognuno sfoggia. Odore di partita di calcio.
Gioco in attacco. Segno spesso. Nonostante le sigarette e la vita sregolata, riesco ancora a correre e, in gergo, a buttarla dentro. Con la freddezza che dimostro di avere anche fuori dal campo. Una corazza a prova di sgretolamento.
C’è una vespa che da due giorni vive in camera mia. Una di quelle il cui corpo sembra diviso a metà, unito da un filo invisibile. Gira tutto il giorno intorno alla stanza. Un volo regolare, senza deviazioni improvvise, elegante. Sembra il prototipo di un mezzo del futuro. Una navetta con due cabine passeggeri. Deve aver trovato la nicchia ecologica che fa per lei. Di cosa si nutra non saprei dire, comunque instancabilmente gira. La notte, trova rifugio sotto la spondina che ricopre la ruota della carrozzina. Stasera è irrequieta. Non ne vuole sapere di ritirarsi nelle sue stanze. Il ronzio nel silenzio della notte, è assordante. Di giorno si confonde con i rumori quotidiani, ora sembra avere un amplificatore attaccato sotto un’ala.
All’improvviso, un colpo secco proveniente dal salotto mi gela il sangue. Mi concentro cercando di capire cosa succede, ma il rumore dell’insetto aumenta esponenzialmente. Come se la stanza agisse da cassa di risonanza.
«Fermati vespa, non sento niente,» inveisco a denti stretti e con un filo di voce. Ancora suoni sconosciuti: sento trascinare, rovistare, muovere. I cani, stranamente, non abbaiano. Avvelenati, storditi, uccisi. Penso a tutto un ventaglio di possibilità funeste. Ho paura. La freddezza di un tempo è svanita, lasciando il posto all’ansia e all’insicurezza. La corazza è piena di crepe. Di ferite sanguinolente perennemente aperte, dove incubi fanciulleschi trovano dimora e linfa vitale. Prendo il telefono per chiamare il 113: digito il numero ma non invio. Se mi sentono parlare, di sicuro me li ritrovo immediatamente in camera. Magari credono che a casa non ci sia nessuno. Aspetto.
Mi sembra di vivere la scena di un film, dove il regista non da mai lo stop.
La vespa, intanto, continua insolente il suo concerto in crescendo:«Smettila maledetta, se continui così ti sentono!».
Ci deve essere un modo per farla posare. Un suono particolare, un comando vocale, ultrasuoni. Se mi vola vicino posso provare a mangiarmela al volo. Così mi pizzica in gola e le urla le sentono in tutto il quartiere. I rumori estranei si fanno più vicini. Li sento nel corridoio. Sento passi leggeri avvicinarsi alla porta della mia stanza. Prendo il telefono. Il panico ha aumentato gli spasmi. Non riesco a posizionarlo per inviare la chiamata di soccorso. Sento la porta scorrevole scivolare lentamente dentro il muro. Tremo. Il telefono mi cade sul letto e rimbalza dove non posso raggiungerlo.
E’ finita.
«Tutto bene signore, ho sveliato?».
«Chi è??!».
«Micchela signore, lampadina stanza rotta cercavvo nova caduto cassetto».
La governante nuova. Lavora qui da due giorni, la paura l’aveva temporaneamente cancellata dalla mia memoria.
«Non ti preoccupare, ero sveglio». Appeso a una parete con i capelli dritti, ma sveglio.
«Devo aiutare per fare pipì?».
«Non ancora, ti chiamo più tardi».
La vespa si è ritirata nel suo loculo e con lei il suo ronzio fuori ordinanza. Forse la frequenza e l’accento della voce di Michela l’hanno spaventata. Anche lei è tornata nel suo loculo.
Ora c’è silenzio. Niente finti ladri né rumorosi insetti. Solo silenzio, che a volte è ancora più assordante e spaventoso.

giovedì 4 settembre 2008

LE PENSIONI ARRETRATE Capitolo 9

Un anno e un mese fa mi sono messo in contatto con  l'Ital-uil, un patronato che assiste gratuitamente il cittadino nella contribuzione, nella domanda di pensione, nella disoccupazione e quant'altro. Nel mio caso, per richiedere pensioni di invalidità civile arretrate e per vedermi assegnata tale pensione con regolarità mensile, dato che il mio reddito rientra, ahimè, nella cifra limite imposta dall'inps. Mi reco, munito dei modelli unici degli ultimi otto anni e del certificato di invalidità, negli uffici del patronato in Via Cavour. Incontro la signora Bianca, con la quale controlliamo le dichiarazioni dei redditi. Tre di esse rientrano nei parametri richiesti. Compiliamo insieme la domanda, non senza una certa soddisfazione anche da parte della signora, visto che la cifra si aggira intorno ai tredicimila euro. Unico neo: per ricevere la somma ci vogliono sei mesi. Siamo a Luglio (2007), per Gennaio (2008) dovrei vedermeli apparire, come per magia, sul conto corrente. Non ho fretta per fortuna. Non ancora almeno. Arriva Gennaio e sul mio conto appaiono, senza alcun trucco magico, solo bollette da pagare. Chiamo l'ital-uil e parlo con una signora che, ovviamente, non sa niente della mia domanda. L'unica cosa che sa, è che Bianca non lavora più la da cinque mesi. Attacco e chiamo l'amico che a suo tempo mi aveva consigliato il patronato. Gli racconto l'accaduto. Dopo qualche giorno mi richiama: ha parlato con un signore che lavora nell'amministrazione del patronato, il quale, dopo aver ricevuto una "bustarella" contenente una maglietta originale della Roma e due biglietti per lo stadio (da me acquistati insieme alla maglietta), inizia a indagare sulla scomparsa della mia domanda. L'arcano è presto svelato. La mia domanda non è mai partita. Più precisamente, non ha mai lasciato lo scaffale dell'ufficio della fu impiegata dell'ital-uil Bianca. Il tipo dell'amministrazione mi mette allora in contatto con il signor Maurizio Soru, altro membro del patronato che lavora a stretto contatto con l'inps, promettendo che avrebbe sensibilmente accorciato i tempi di attesa per la ricezione dei miei arretrati. Siamo a Gennaio. Arriva Giugno e ancora non è successo niente. Sul mio conto appare di tutto, tranne il bonifico atteso. Chiamo il Soru per avere notizie. Dopo un paio di giorni di tentativi lo trovo. Mi dice che la mia pratica è in risoluzione e mi da appuntamento telefonico a metà Luglio, per comunicarmi la data esatta in cui riceverò il bonifico. Evviva, penso, finalmente ci siamo. Dopo un anno di attesa vedo la meta. Purtroppo canto vittoria troppo presto. Dal quindici al trenta Luglio lo chiamo, di media, tre volte al giorno senza ricevere mai risposta. Di contro, all'ultima telefonata mi attacca in faccia. Inizio a perdere la pazienza. Anzi no, la perdo del tutto. Contatto di nuovo l'amministratore oliato e gli vomito addosso (molto educatamente) l'accaduto, condito con ciò che penso riguardo al Soru. Mi promette che mi richiamerà a breve, dopo aver fatto chiarezza sull'episodio. Sorprendentemente mi richiama il giorno dopo, scusandosi "per la sgarbatezza del signor Soru" (parole sue) e lasciando il numero di Anna Franco (l'avranno chiamata Anna per l'italiofona omonimia?), altro membro della scuderia ital-uil che intrattiene rapporti diretti con l'inps. Signora "affidabile e preparata" (sempre parole sue). Altra giostra, altro giro. Chiamo. Mi tratta con una sufficienza che più sufficienza non si può. Dice di conoscere la mia situazione e di aver già sollecitato l'inps riguardo al pagamento. Dice anche che domani, suo ultimo giorno di lavoro, sarà all'inps e farà un nuovo sollecito. 
«Allora la chiamo domani per conoscere l'esito del sollecito?» chiedo.
«Se vuole...».
E' chiaro che voglio. E così faccio. Mi risponde proprio dall'ufficio inps che si occupa dei pagamenti, con la stessa sufficienza:« E' tutto a posto, riceverà le pensioni arretrate e la nuova pensione d'invalidità tra un mese».
Siamo ai primi giorni di Agosto, dovrei vederle arrivare per Settembre. Visti i precedenti, stavolta non esulto e mi faccio dare il numero di protocollo della pratica. Me lo da con riluttanza, dicendo che per controllare devo recarmi sul posto. La cosa mi insospettisce. A distanza di qualche giorno, un venerdì, mi faccio accompagnare all'inps da un amico. Cerco di prendere il numeretto, ma la macchina non da segni di vita. Mi avvicino al banco informazioni e scopro che gli sportelli che si occupano delle pensioni d'invalidità, ricevono il martedì e il giovedì. Tanto per rendere la vita più facile. In compenso noto che finalmente i disabili con gravi difficoltà motorie (presente!), non devono più affrontare la solita interminabile fila. C'è tanto di cartello affisso a indicarlo. Una novità dell'ultima ora. Finalmente qualcuno sta cercando di abbandonare le caverne. Mi ripresento il martedì successivo con qualsiasi tipo di documento e il numero di protocollo. Non faccio la fila. Spiego tutta la situazione all'impiegata (due volte) la quale, senza bisogno del numero, controlla la mia situazione. Mi guarda.
«Allora?»
«Non le posso dire niente, deve parlare con il patronato».
«Ma io sono qui per controllare se il patronato si sta realmente occupando della mia pratica».
Alzo un minimo la voce dicendo che sono disposto a buttarmi per terra davanti alla sua scrivania se non si fa chiarezza su questa storia. Voglio parlare con un responsabile. L'impiegata ora mi ascolta: stampa un foglio e scrive in cima il nome della tipa dell'ital-uil, insieme al mio numero di telefono e a qualche altro appunto. Mi dice di tornare martedì prossimo per parlare con la signora Cosimi, perchè adesso l'ufficio è ancora chiuso:«Sono tutti in ferie, sa è Agosto». Certo, la gente smette di avere problemi in Agosto. Non si sta male, non si ha bisogno delle istituzioni. Agosto, in Italia, è un mese ai confini della realtà. Sospeso nel nulla. Tutto si ferma, è normale. Lo stesso giorno parlando con Massimiliano, un mio fratello acquisito, viene fuori che un suo amico di famiglia, Enzo, ha lavorato per anni con diversi patronati, e lavora ancora a stretto contatto (udite udite)  proprio con l'ufficio a cui compete la mia pratica. Chiamo senza indugio, spiego per l'ennesima volta. Conosce la signora Franco. E' lunedì, mi chiede di mandargli via sms i miei dati insieme al numero di protocollo, che a questo punto ricordo a memoria, e mi rimanda a mercoledì. Oggi. Lo chiamo verso le sette di sera, preoccupato di non aver ricevuto ancora nessuna chiamata.
«Tutto bene. Ti hanno spedito la lettera che annuncia ufficialmente l'arrivo della pensione e degli arretrati,» mi dice con voce soddisfatta, «Comunque io mercoledì prossimo do un'occhiata. Credere va bene, controllare è sempre meglio». 
Lo ringrazio di cuore. Stavolta ci credo anche prima del controllo e mi sento sollevato, anche se in verità sono già entrato in ansia da attesa posta. Dulcis in fundo, sto per sedermi a tavola (...) quando squilla il telefono. Sul display appare il nome: Maurizio Soru, il tipo che non rispondeva mai. Non è possibile. Rispondo immediatamente e sento il classico rumore dell'apparecchio che balla nelle tasche, condito da voci femminili in lontananza. Non resisto e gli mando un sms: «Per quindici giorni non ha risposto alle mie molteplici chiamate. Stasera le è inavvertitamente partita una telefonata diretta proprio a me. Alla faccia dell'ironia!». 

martedì 2 settembre 2008

Roma, 2 Settembre 2008

Nudo

I cuscini sistemati a dovere: sotto le caviglie per tenere sollevati i malleoli⁏ in mezzo alle ginocchia per evitare il contatto. Il corpo girato verso destra.
Perchè così dormo io, da sempre. Cioè da sempre dopo l'altro sempre. 
Perchè è più comodo, o almeno lo era. Ora è utile.
Ho una piaghetta sulla chiappa sinistra che va e viene. In questa posizione non appoggia. Altrimenti fa lo stesso. Girato, mezzo girato, supino. Tanto i cuscini durante la notte salteranno, e mi ritroverò con le gambe sull'altro lato del letto.

Nudo

Ho sempre caldo la sera, anche d'inverno. La termoregolazione gioca strani scherzi, da sempre.
Lo stesso sempre dopo il sempre.
Accendo l'aria condizionata e so già che mi addormenterò un momento prima del gelo, e mi sveglierò alle prime avvisaglie di congelamento. Ma lo faccio lo stesso. E' come se, raggiunta una certa temperatura, il mio cervello decidesse di auto-spegnersi. Di contro, se si ferma il condizionatore, mi riavvio all'istante.

Nudo e solo

Solo e accaldato. L'aria fa fatica a rinfrescarsi stasera. Le ansie arrivano come ondate di calore, con la frequenza di un mare in burrasca. Forse ho bisogno di compagnia, forse di sesso, forse d'amore. O, più semplicemente, ho bisogno di libertà. Una libertà di cui pochi conoscono il gusto. La libertà di sempre.
Il sempre prima dell'altro sempre.

domenica 10 agosto 2008

Roma, 10 Agosto 2008

Voglio partire anch'io per Agosto.

Continuo a fumare erba ma non sento niente, se non l'odore acre dei filtri umidi cosparsi di cenere che giacciono ammassati come cadaveri in una fossa comune. Odore di malinconia, di solitudine, di morte. Sono tornato da poco e le mie vacanze l'ho fatte, ma sono già un ricordo sbiadito dal tempo. Il mondo in cui mi trovo ora, non permette assenze ingiustificate ne spensieratezza. Mi sento in combattimento perenne, circondato da mulini a vento più alti del cielo. Inarrestabili.

Sono stanco.

Umiliato dalle istituzioni, dagli eventi. Vivo in un girone dantesco dove cerco, con tutte le mie forze, di risolvere problemi che puntualmente si ripresentano irrisolti. Ho voglia di cambiare le carte in tavola, ho bisogno di cambiare. Ho bisogno di semplicità, di normalità. La follia ha camminato accanto a me per troppo tempo. Non sopporto più nessuno e tutto mi provoca nausea. E' San Lorenzo. Per ogni stella che non vedrò cadere, lo stesso desiderio.

Anch'io voglio partire, per non tornare.



domenica 29 giugno 2008

LA RICERCA DELLA GOVERNANTE (Reprise) Capitolo 8

La mattina dopo "Soreta" si presenta puntuale. Bionda, occhi azzurri, carnagione chiara tendente al rossastro e qualche chiletto in più del dovuto (per essere gentili). Fa il canonico giro di casa; facciamo la canonica chiacchierata e, sempre canonicamente, dice:«Non ti pentirai di me, starai bene».
Non sono passate ventiquattr'ore che sono già amaramente pentito e mi sento male. "Soreta" è sparita senza lasciare traccia. Cellulare spento. 
Lasciare che uno sconosciuto giri liberamente per casa tua è già difficile di suo. Se poi aggiungiamo il fatto che ogni volta devo spogliarmi (in senso lato) delle mie molteplici e intime problematiche di fronte al pinco pallino di turno, che puntualmente il giorno dopo non si presenta, il peso della ricerca diventa insopportabile. Di conseguenza, la ricerca si fa meno convinta e si tende a rallentare il processo, sperando che una governante piova dal cielo. Cosa che non succede. Anzi, tra le poche persone che ho intervistato mentre mi trovavo in questa terra di mezzo, ne spiccano due: maschi e filippini entrambi. 
C'è una leggenda che imperversa da quando è stato inventato il mestiere di colf: i filippini sono più bravi, più precisi e più affidabili degli altri. Trattasi di leggenda non veritiera, almeno per quanto ho potuto empiricamente constatare. Dei due sopra citati, entrambi in Italia da tre anni: uno capisce a malapena quello che gli dico e non sa cucinare; l'altro alla domanda "Che lavori hai fatto?", mi guarda come se gli avessi chiesto di recitare a memoria la Divina Commedia. 
L'insofferenza della mia ex-governante si sente ormai anche nell'aria. E' rimasta quindici giorni in più del dovuto (come se fossero sufficienti) , per permettermi di trovare qualcun altro. Cosa che fin'ora non è avvenuta. Entra in camera mia e sentenzia:«Tra una settimana me ne vado». 
La guardo senza dire niente. La tensione che sto provando da giorni, improvvisamente si placa. Nonostante mi renda conto di essere sul ciglio di un burrone, sono felice che se ne vada. Evidentemente l'insofferenza non è solo la sua. La notizia comunque mi riporta sulla terra, quella intera non di mezzo, e mi attivo di nuovo. Chiamo caritas, parrocchie, suore, associazioni varie; chiamo amici, vicini, conoscenti. Provo a fare una ricerca su google:"Agenzie badanti", sicuro che non avrei trovato niente. Apriti cielo invece! Compaiono i nomi di una decina di agenzie che si occupano di reperire il personale giusto per ogni evenienza. Badanti, colf, infermieri, cuochi, tutto. Mi sento come se avessi scoperto il senso della vita. Fonti inesauribili da cui posso attingere a mio piacimento. Una schiera di governanti, con tanto di accurata descrizione di ogni soggetto: mansioni, tipo di lavoro ricercato, esperienza, dimestichezza con la lingua, disponibilità. Non è proprio così. La 'nodavo.com', offre una lunghissima lista con i nomi delle persone disponibili. Tramite un piccolo semaforo a una sola luce, posto in alto a sinistra su ogni scheda tecnico-descrittiva, segnalano la disponibilità (luce verde), la trattativa in corso (luce gialla) e l'impiego trovato (luce rossa). Nella scheda troviamo: tipo di lavoro ricercato e target umano preferito. Ad esempio: solo donne anziane autosufficienti; uomini e donne anche non autosufficienti; uomini con un minimo di autosufficienza e via dicendo. Scopro nuove categorie in continuazione; il paese di provenienza e la religione; l'età, dove risiede a Roma, quanti figli ha, se ne ha, la dimestichezza con la lingua; se è munita di patente e disponibile a trattare con animali domestici. Una scheda ricca insomma, alla fine della quale troviamo l'elenco dei lavori svolti e le referenze. Spulcio la lista e inizio a barrare le caselle di quelli che corrispondono al tipo di persona che cerco. Alla base di ogni scheda c'è un pulsante cliccabile, che permette di ottenere i numeri dei candidati selezionati. Clicco. Appare un riquadro con un avvertimento: è possibile contattare un massimo di tre persone al giorno. Io ne ho selezionate otto. Scremo e rimango con tre. Riclicco. Altra finestra: si devono versare quarantotto euro per avere accesso ai numeri di telefono dei selezionati, per la durata di un mese:«Perchè se in un mese non l'ha trovata, non la trova più,» sentenzia l'operatore. Bella cazzata, sono quasi due mesi che cerco e ancora niente. Mi bevo le sue stupidaggini e verso. Ottengo i tre numeri agognati. Risultato: il primo ha trovato lavoro (ma la luce era verde), il secondo sta provando (era verde anche questo), il terzo è spento. Un ottimo inizio. Provo con altre due agenzie online: la prima si chiama 'Privatassistenza' (nome già poco rassicurante) e offre infermieri a ore, assistenza ospedaliera, integrazione badante. Servizio sicuramente utile, ma molto costoso. Parlo con il titolare, persona cortese, che dice di non essere ancora in grado di fornire il tipo di assistenza che sto cercando. Mi assicura però che si stanno organizzando in merito. Ci credo, ma controllerò. La seconda si chiama Luste, e trattasi di cosa più seria. L'agenzia offre una "consulenza esclusiva" nella ricerca di personale altamente qualificato: maggiordomi, cameriere, giardinieri, governanti e quant'altro. Un paradiso di aiutanti. Parlo con una signora molto gentile che, in un attimo: capisce cosa sto cercando, mi dice che ha la persona perfetta per me e mi da appuntamento al giorno dopo. Un'efficienza che mi lascia senza parole. L'unica cosa che mi spaventa è il fatto che la signora, sempre molto gentilmente, mi chiama dottor Amurri. Nella maggior parte dei casi il 'dottor', nasconde il salasso. Arriva domani e arrivano anche loro, puntuali all'appuntamento. L'incontro, all'insegna della gentilezza e dell'educazione, dura un'ora. La governante è italiana, dai modi pacati ma decisi, sa fare tutto: cucina benissimo; mi fa notare che la casa, a suo avviso, è sporca e in disordine (a me sembra pulita e ordinata); mi dice che lei è molto precisa, però le piace l'ambiente rock'n'roll. Casomai reggae, ho i dread lunghi più di un metro. Arriviamo finalmente al costo. La governante, perchè qualificata, prende mille euro al mese; l'agenzia, perchè esclusiva, prende mille euro per la consulenza. Io non ho mai dato più di ottocentocinquanta euro al mese, che è la cifra giusta per questo tipo d'impiego (contratto nazionale). Quindi salasso. E poi è un'ora che la governante recita la parte della tipa affascinante, che non è. Non sono molto convinto, rimaniamo che verrà a provare tra due giorni. La chiamo la sera e le dico che preferisco aspettare di tornare dalle imminenti vacanze. Non batte ciglio e si offre, per sistemarmi casa, fin quando è libera. La ringrazio ma passo. Mio fratello trova un ragazzo peruano, ma viene da un'agenzia che anni prima mi aveva mandato una serie di ubriaconi che levati. Mi rifiuto di averci a che fare di nuovo. Il ragazzo insiste, dice che viene senza avvertire l'agenzia. Ci vediamo. Mi sembra una brava persona, anche se la butta giù pesante sulla cristianità, che per me è un deterrente. Comunque lo prendo. Anche perchè mi dice che la moglie è cuoca di secondo livello, che non so cosa voglia dire, ma suona bene. Carlos, così si chiama, sa fare di tutto: idraulico, elettricista, giardiniere e sa fare le pulizie di casa. In cucina è negato. E' un ex-poliziotto della narcotici (...) e racconta un sacco di storie. Da prendere con le molle. Però è un buono e lavora con grande impegno. Mi chiede se il sabato può far venire la moglie a dormire. Certo. Così cucina. Arriva sabato. Conosco la moglie, che ha lavorato due anni con Enrico Papi (me l'avranno detto venti volte). Lui è alto un metro e sessantacinque; lei, con le zeppe, è comunque più bassa di lui. Porta un cappellino di walt disney con il ventilatorino incastonato nella visiera. Uno spettacolo. E io che mi preoccupavo per le misure del letto nella stanza di servizio. Erica c'entrava appena, per loro è un king size. Ne potrei ospitare una decina con queste misure. Per un attimo penso al film di Burton 'Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato'. Vi ricordate gli omini tutti uguali che cantano e ballano mentre lavorano? Ecco. Me ne immagino una decina, cantanti e ballanti, che mi sistemano casa, cucinano e vanno a fare la spesa. Un sogno. Carlos gli somiglia pure. Dovrò assumerlo e clonarlo. 



lunedì 23 giugno 2008

Roma, 21 Giugno 2008

Oggi sono andato al funerale di un mio amico d'infanzia. Un amico di quartiere, di via, di famiglia. Un amico con la A maiuscola. Non lo vedevo da qualche anno. Strade diverse le nostre: più tortuosa la mia, per ovvie ragioni; più scura e solitaria la sua, e fragile come le ali di una farfalla. Aveva tutto. Bellezza, bontà d'animo, simpatia. Era ricco. Purtroppo tutte queste qualità, come ho tristemente imparato nel corso della mia esistenza, spesso risultano deleterie. Avrebbe potuto girare il mondo senza mai fermarsi, avrebbe potuto togliersi tante soddisfazioni, avrebbe potuto essere ciò che voleva, avrebbe potuto.
Parcheggio davanti alla chiesa di Piazza Euclide. Rimane un mistero il motivo per il quale non abbiano scelto la chiesetta di quartiere, dove, a mio avviso, ha passato il periodo più bello della sua breve vita (nel quartiere, non nella chiesetta). Ai piedi della lunga scalinata che porta all'ingresso della chiesa, mi sorprendo a sperare che il posto non sia accessibile. Ci sono persone che preferirei non incontrare.  E' chiaramente accessibile. Una lunga e poco ripida pedana laterale conduce fino a una delle porte della chiesa, anch'essa perfettamente accessibile. Incontro gli amici di quartiere, questi sì che voglio incontrarli. Ci guardiamo e ci abbracciamo senza dire una parola. Bastano gli sguardi, basta un attimo e siamo di nuovo la piccola banda super affiatata di un tempo. Arriva la bara. Lo stomaco implode, entro. Mi avvicino alla famiglia senza guardarmi intorno, senza incrociare i molteplici sguardi che mi piovono addosso. Abbraccio la sorella e la stringo forte, più forte che posso:« L'abbiamo perso,» mi sussurra nell'orecchio piangendo. Continuo a stringerla. Non riesco a dire niente, ma quelle due parole sussurrate mi scioccano. Rimbalzano impazzite  nel cervello. Cosa vuol dire "L'abbiamo perso"? Che non siamo (siete) stati capaci di aiutarlo? Che l'abbiamo (l'avete) lasciato correre verso il burrone? Bacio la mamma e mi sistemo di lato. Il prete inizia la messa. Per dieci lunghissimi minuti, sbaglia il nome del defunto. Lo chiama Alfredo: si chiama Maurizio. Qualcuno si alza e lo va a correggere. Il prelato ha il microfono davanti alla bocca:«Come?...Maurizio?...Ah scusate». Poco prima aveva dichiarato di conoscere bene la famiglia. Si avvicina il padre, che non vedo da una quindicina d'anni, e mi ringrazia di essere venuto. Non credo si renda conto ancora, forse non ci riuscirà mai. Quando eravamo 'pischelli' appena diplomati ci disse:«Se fate l'università avete ancora tempo da perdere, se no dovete lavorà ma lavorà tanto. Per fare esperienza. Se tu vuoi fare l'artista è un altro discorso». Io ho fatto l'artista; Maurizio non ha fatto l'università e non ha lavorato. 
La cuginetta legge una breve lettera, parla di angeli e paradiso. E' giovane. Le parole semplici, innocenti e scontate che pronuncia almeno sono vere, sentite. Viene il turno di Rudy, un ragazzo del quartiere dirimpettaio di Maurizio. Recita (male) un breve monologo, esaltandone le doti e il fatto che per lui fosse stato, in quegli anni, un modello da seguire. Cosa che non era. Alla fine dell'intervento, sembra quasi che attenda l'applauso della platea. Per vivere fa il produttore cinematografico. Assomiglia terribilmente a De Laurentiis, cosa che gli farà certamente piacere. Finisce la messa.
Mi avvicino alla bara e leggo la piccola targa con il nome e le date di nascita e morte. Mi sento male. Esco dalla chiesa in lacrime. Siamo tutti provando un senso di rifiuto. Si, perchè non si può morire così, a casa come un cane. Il cuore non si può fermare a trentacinque anni. Non può, non deve. 
Sbagliavi, quando ti portavi via il pallone nel pieno di una partita a calcio, di solito quando stavi vincendo, perchè "il pallone è mio e faccio come mi pare"; sbagliavi, quando hai iniziato a non uscire più, a chiuderti dentro la tua stanza, a dialogare esclusivamente con te stesso. Ma lo sbaglio più grande l'hai commesso due giorni fa. Hai sbagliato amico mio, sei andato via troppo presto. Hai portato via il pallone per l'ultima volta. Ciao Maurì.

sabato 14 giugno 2008

DISABILE VS. INPS Capitolo 7

Ho deciso di chiudere il conto dove ricevo l'assegno di 'accompagno' che lo stato, nelle vesti di Inps, mensilmente mi versa. Quattrocentosessanta euro che servono, ahimè, a ben poco. Vado sul sito dell'ente: cerco il modulo scaricabile che permette il cambio di conto. Ce ne sono tanti e per tutti gli usi, troppi usi. Non trovo quello che mi serve. Contatto il numero verde che l'Inps mette gentilmente a disposizione, per chiedere informazioni su dove trovare il modulo e sull'iter da seguire per comunicare le nuove coordinate bancarie. Seguo il solito labirinto digital-telefonico, fatto di vocine registrate e numeri da digitare, che mi porta, dopo circa dieci minuti di combattimento, al tu-tu-tu della linea interrotta. Provo ancora e riesco a parlare con un operatore:«Inps dica,» la linea è disturbata, si sente poco.
«Salve, devo cambiare le coordinate bancarie dove ricevo la pensione. Qual'è il modulo scaricabile da internet?».
«E' ...egato al ..it..».
«Scusi, potrebbe ripetere non si sente bene».
«E' sul sito? Mi segue? E' sul sito? Capisce cosa le dico?» domanda in rapida sequenza con voce stizzita.
«Stia calma signorina non la sento bene, continui» cerco di mantenere la calma.
«Vada su moduli».
«Fatto».
«Vada su ....rat.. ...ns...t.».
«Scusi ripeta per favore, non si capisce».
«Mi segue? E' in grado di fare quello che le dico? Vada sulla voce assicurati\pensionati è il quarto modulo. Mi segue⁇» sempre più stizzita.
A questo punto vorrei vomitarle addosso tutto ciò che penso, ma continuo a trattenermi e a interagire con educazione:«Trovato, grazie. E una volta compilato?».
«Lo porta all'Inps di zona, dove altro?».
«Devo portarlo anche in banca?».
«No, direttamente qui». 
(Non è vero. Una parte del modulo deve essere compilata da un funzionario di banca).
«C'è un ufficio pensioni?».
«Presumo di si».
Ecco. Sono una persona molto paziente, ma la frase "Presumo di si" ha innescato, nelle mie viscere, una bomba a orologeria. Il castello della mia educazione, che fino a quel momento aveva retto ai ripetuti attacchi del nemico audiolesivo, è imploso come un palazzo carico di esplosivo:«Presumo di si⁇,» inizio a urlare, «Lei risponde a un numero verde di un ente per fornire informazioni e presume ci sia un ufficio pensioni? La pagano per presumere? Ma con chi crede di avere a che fare? Sono disabile, mica deficiente (con tutto il rispetto per la categoria). Lei è un'ignorante e una maleducata».
«Le ho detto quello che voleva sapere» e mi attacca in faccia. Potrei andare all'inps con un mitra e uccidere qualche operatore, a caso. Sperando di beccarla. Tanto i tetraplegici in galera non ci vanno. Arresti domiciliari. 
Compilo il modulo e vado all'inps, senza mitra. Passo in banca, dove riempono la parte a loro riservata (qui ci vorrebbe il mitra). C'è un parcheggio interno davanti agli uffici senza posti riservati ai disabili (bravi no?). Entriamo, io e Miky, dalla doppia e scomodissima porta d'ingresso. Nonostante ci vedano in chiara difficoltà, nessuno dei presenti muove un dito per reggere la seconda porta. 
Mi avvicino al banco informazioni: un signore barbuto mi porge un modulo. Io gli mostro il mio modulo già compilato. Lo guarda come se avesse visto un alieno:«Vada pure con quello. Prenda il numeretto, sportello a».
Presumo ci sia un corsia preferenziale per disabili. Presumo male (almeno a me non mi pagano). Prendo il numero: a 30. Siamo al 6 e l'attesa sembra molto lunga. Un signore si avvicina e mi porge il suo numero: a 15. Allora esistono ancora degli esseri umani sensibili su questo pianeta! Lo ringrazio di cuore. Aspetto comunque una ventina di minuti prima di vedere il mio numero brillare, come un rubino, sul display elettronico. Consegno il modulo e spiego ciò che devo fare. Io parlo in italiano, lei in burocratese. Ci mettiamo un pò a capirci, ma alla fine riesco a cambiare il maledetto conto. Ne approfitto per chiedere informazioni sulle pensioni arretrate che devo ricevere da un anno. La risposta, dopo una piccola ricerca, è che serve il numero del fascicolo. Il patronato che ha seguito la mia domanda, dovrebbe chiamare lo sportello inps per conoscere la situazione delle mie pensioni tramite quel numero. Burocratese. La domanda sorge spontanea. Perchè, se digita il mio nome sul computer, non appare tutto quello che mi riguarda per quanto concerne l'inps? O meglio, perchè quando c'è da riscuotere si trova tutto, mentre quando c'è da pagare non si trova mai niente? Tecnologia settoriale.    

giovedì 22 maggio 2008

INSIDIE DI UN PICCOLO INTERVENTO Capitolo 6

Come ho accennato in un precedente capitolo, la scorsa estate sono volato in Germania per un operazione chirurgica alla vescica. Operazione conclusa felicemente dal Dott. Olianas (non finirò mai di ringraziarlo!) - di chiare origini sarde - che ha notevolmente migliorato la mia qualità di vita. In poche, semplici e chiare parole (spero), prive di qualsiasi informazione tecnica, vado a spiegare cos'è successo alla mia povera vescica: prima ne hanno ampliato la capienza con un pezzo di intestino tenue, poi, sempre usando l'intestino, hanno creato un piccolo condotto che parte dalla vescica e sbuca vicino all'ombelico. Ogni volta che sento lo stimolo della pipì: prendo un piccolo catetere - lo collego al tubo di una busta/raccoglitore - lo infilo dolcemente nel condotto - faccio pipì - sfilo il catetere e butto tutto nel cestino. Non prima di aver svuotato il contenuto della busta nel water. Sono stato chiaro? Detto così potrebbe sembrare un delirio, invece è tutto molto semplice. Per la mia salute è stata una svolta epocale, dopo due anni di problemi di cui scriverò in un altro momento. Qualche giorno fa, mi hanno ricoverato in day hospital nell'ospedale davanti casa per fare una piccola rettifica all'intervento germanico. Si trattava semplicemente di allargare la stomia (il buchetto) dove entra il catetere, che tende a cicatrizzarsi (la stomia non il catetere) rendendo impossibile l'operazione pipì. 

DAY ONE.

Mi sveglio alle otto. Miky arriva alle otto e mezza. In coma. Io ho dormito poco e male, per di più non posso fare colazione. Arrivo in ospedale alle nove e mezza: puntuale e a digiuno. Ho fame. Prendiamo l'ascensore e saliamo al secondo piano. Chiedo informazioni a una suora:«Dov'è Urologia?».
«In fondo al corridoio a sinistra».
Come due automi seguiamo le indicazioni alla lettera. Imbocchiamo il corridoio e svoltiamo in fondo a sinistra. Un portantino ci blocca:«Ndo và?».
«Urologia».
«N'è de qua. Deve tornà ndietro. Ao tutti de qua passate».
«La suora ha detto in fondo a sinistra».
«Se ma sinistra de qua». Indica una porticina che neanche un segugio avrebbe trovato, al di là della quale parte un lungo e stretto corridoio che porta al reparto. Miky mi trascina via un attimo prima che inizi a insultarlo. Scopro in seguito, che il maliziosetto mi ha fermato perchè transitavo nella zona 'pischelle' di quel reparto. Ma uno và in ospedale alle nove di mattina a 'spizzarsi' le ricoverate in Medicina Riabilitativa? Ma che perversione è? In fondo al corridoio troviamo la porta del reparto, chiusa. Suono il citofono. Esce una suora (un'altra) che mi dice di aspettare:«C'è la visita». In gergo vuol dire che è in corso il giro mattutino rituale del primario, accompagnato da una schiera di medici in totale sudditanza. Tale e quale al film "Prof. Guido Tersilli medico della mutua" con Alberto Sordi. Canticchio la celebre colonna sonora. Un signore in attesa sorride. A me, invece, girano le palle vorticosamente. Odio aspettare, soprattutto in ospedale. Sto già valutando l'ipotesi: prendi e torna a casa. Si riapre la porta, stavolta è un'infermiera. Mi fa segno di seguirla. Entro in medicheria, e con sommo piacere apprendo che il chirurgo vuole solo che faccia degli esami di routine: sangue, urina, e.c.g. (elettrocardiogramma) e poi posso andare a casa. L'intervento è fissato per domani. La notizia che non devo passare la notte in ospedale mi rincuora. L'infermiera mi preleva il sangue e mi lascia andare a fare colazione: cappuccino tiepido e cornetto per me; super tramezzino prosciutto-formaggio-spinaci e spremuta d'arance per Miky (buon sangue catanese non mente). Torno in reparto e una suorina (perchè minuta) indiana mi fa l'e.c.g.. Mentre attacca elettrodi e ventosine metalliche mi parla senza fermarsi mai, come se stesse recitando una preghiera, un mantra. Ripete l'esame tre volte, continuando con la sua cantilena che riesce quasi a farmi addormentare. Il bello, è che non ho capito una parola una di ciò che ha detto. Divertito, me ne torno pimpante in medicheria dove incontro l'infermiera di prima che mi spiega quello che succederà domani. Arriva anche il primario che legge le mie carte:«Complimenti Lorenzo, hai appena vinto un intervento chirurgico». Rido. «Vieni domani verso le nove e mezza». Strizza l'occhio e se ne và. Devo dire che, portantino a parte, sono stati tutti molto carini e disponibili. Uscendo passo a salutare mia madre, anche lei ricoverata per un'operazione all'anca (un lazzaretto di famiglia). Reparto: Medicina Riabilitativa reparto anziani. Qui non c'è nessun malizioso portantino a fermarmi. Anche perchè, se ci fosse, andrebbe rinchiuso. La mamma sta bene. La trovo in palestra, stesa su un lettino a fare esercizi con un fisioterapista. Altre sei signore, disposte su altrettanti lettini, si esibiscono in scoordinati movimenti di gambe, anche e bacino. Mentre l'altro terapista zompetta di paziente in paziente impartendo ordini e controllando l'andamento dei vari esercizi.
«Fabio ne ho già fatte venti, mi posso riposà?»
«Venti come signora Serafini?»
«Come m'hai detto te, guarda».
La signora spinge con le gambe piegate cercando di alzare il bacino, tra sforzi disumani che la rendono paonazza. Il bacino si alza impercettibilmente, prima di riafflosciarsi sul lettino insieme alle gambe, che ora ricordano quelle di una rana a pancia all'aria. 
«Si, proprio come le ho detto io. Ne faccia altre venti signora Serafini».
Mi guardano come fossi un alieno. Mi avvicino a mia madre che mi presenta il fisioterapista, che zompetta verso un altro lettino. Ma non saranno pochi due per tutte queste signore? Accanto a me seduta su una fatiscente carrozzina ospedaliera, una signora molto anziana mi fissa con gli occhi sgranati e la bocca aperta. Aspetto che da un momento all'altro mi dica:«Ricordati che devi morire!». Come nel film 'Non ci resta che piangere'. Per fortuna non lo fa. Continua però a fissarmi finchè non me ne vado. Accompagno mia madre, che nel frattempo si è alzata e ha inforcato le stampelle, nella sua stanza. Vuole che le porti un cucciolo del mio cane, che ha appena partorito, in ospedale. Provvederò. Torno a casa fiducioso e, per una volta, convinto di aver fatto la scelta giusta.  

DAY TWO.

La scena della mattina precedente si ripete tale e quale. Io non ho dormito, Miky è in coma. Mi sento come Bill Murray in 'Groundhog day' (sono tutto citazioni cinefile oggi), l'unica differenza è che posso fare colazione. Arrivo in reparto sempre puntuale (a volte mi sorprendo da solo!) e già mangiato (come direbbe Verdone). La stessa infermiera simpatica del giorno prima mi accoglie e, insieme a Miky, mi sistema sul letto. Mi spogliano dei vestiti per infilarmi la classica palandrana verde ospedale, in puro tessuto acrilico. E' talmente fina, che solo a guardarla vengono i brividi di freddo. In realtà tiene un caldo insopportabile. Chimico. Arriva un altro infermiere, e con tutto il letto mi portano in sala operatoria. Incontro l'anestesista, una bella donna, che mi infila un ago-cannula nel braccio e mi fa alcune domande di routine. Più le solite domande sull'incidente: com'è successo; dov'è successo; quand'è successo e, nei casi più estremi, perchè è successo. Bella domanda del cazzo. Arriva il momento del tanto atteso intervento e delle insidie che in verità nasconde. Il primo problema che, immancabilmente, si presenta puntuale all'appuntamento riguarda il 'tavolo operatorio'. Solo il nome, evoca immagini di guerre di secessione. Feriti maciullati posti su tavolacci di legno, alla mercè di chirurghi improvvisati muniti di seghe arrugginite. Faccio notare che c'è un problema. 
Non posso sdraiarmi su una superficie dura. Nessun para-tetraplegico può. A meno che non sia notevolmente in carne. Cinque minuti su quel tavolo equivalgono a sei mesi sul letto di casa a pancia sotto, con una piaga da decubito all'osso sacro. Mi rivolgo alla suora caposala, che sta organizzando il trasferimento da letto a tavolo, e al chirurgo.
Io:«Il tavolo è troppo duro. Rischio di farmi male».
Suora:«Non abbiamo materassini. Dai dai, tanto dura poco, non possiamo aspettare».
Chirurgo:«Tranquillo Lorenzo, in mezz'oretta abbiamo fatto».
Io:«Sentite! Io la sopra senza protezione non ci vado. O mettete un materassino, o potete tranquillamente passare al prossimo intervento».

Silenzio.

Irrompe, con tempismo perfetto, una delle infermiere di sala con tre cuscini, che vengono posizionati in fila a formare un piccolo materasso (e ci voleva tanto⁉). Salvando la situazione che si era fatta pesante. Mi trasferiscono sull'altare sacrificale e iniziano i preparativi. Tra le altre cose, un infermiere si arma di rasoio e mi tricotomizza la pancia. Cioè mi rade completamente da sopra l'ombelico fino al pube. La cosa mi insospettisce. La parte che devono operare si trova in basso a destra rispetto all'ombelico. E' piccolo il pertugio da allargare, perchè mi rade completamente? Sto per trasformare il pensiero in suono quando sento il chirurgo e il suo aiuto parlottare dell'operazione.
Chirurgo: «Hai capito allora di che si tratta?»
Aiuto: «No, spiegami».
Chirurgo: «Dobbiamo aprire l'ombelico e allarg....».
Io: «L'ombelico di chi dovete aprire⁇».
Chirurgo: «Ma il tuo medico tedesco ha parlato di ombelico».
Io:«No dottore, vicino all'ombelico. L'abbiamo visto insieme quando mi ha visitato, ricorda?».
Chirurgo: «Oddio Lorenzo mi devi scusare, mi sono confuso».

Silenzio. 

Mi sono confuso⁇ Ma che risposta è? In questo caso devo ringraziare la mia condizione. Non ho sensibilità cutanea nell'ottanta per cento del corpo. Non ho bisogno di anestesia totale in questo caso, solo locale. Immagino la scena se fossi stato sedato totalmente: il chirurgo mi fa svegliare nel bel mezzo dell'intervento chiedendo che cosa esattamente debba farci col mio ombelico, tenendolo sospeso per aria con una pinza. 
Durante l'operazione l'anestesista mi offre del valium, che saggiamente rifiuto. Visto l'andazzo, meglio essere lucidi e vigili. Finisce tutto bene. Accetto anche del tranquillante, perchè ho un po' di dolori e, di conseguenza, mi si sta alzando la pressione. Il mondo diventa immediatamente più soffice, più morbido. Torno in stanza e dormicchio parte del pomeriggio. Alle sei, dopo aver testato la funzionalità della rettifica, e con il benestare dei medici, me ne torno a casa. Saluto l'infermiera simpatica e un'altra sud-americana che, dopo aver tessuto le lodi delle donne latine, si offre come eventuale accompagnatrice, se dovesse servire. Intanto ci accompagna all'ascensore di servizio: infila la chiave e ci assicura che il suddetto sbuca davanti a una delle uscite. Ci ritroviamo davanti a tre porte arancioni serrate. L'ascensore non possiamo riprenderlo perchè funziona solo con la chiave. Siamo costretti, anzi Miky è costretto, a imbracciare le manovelle della carrozzina e, a marcia indietro, salire gradino per gradino due belle rampe di scale. Arrivati in cima, lancia una serie di maledizioni in dialetto che il woodoo in confronto diventa un giochino per bimbi. Usciamo finalmente dall'ospedale stanchi (io ancora un po' narcotizzato in verità) ma felici che tutto sia andato per il verso giusto, stavolta. Come non detto. La notte sono costretto a chiamare il dottore perchè il catetere non entra. Per fortuna è solo un grumo di sangue che dopo un po' cede. Che fatica però.


    

martedì 22 aprile 2008

LA RICERCA DELLA GOVERNANTE Capitolo 5

Tre giorni fa, la mia governante mi ha svegliato annunciando una buona novella. Come sempre è entrata in camera, ha alzato la serranda e ha poggiato sul letto il vassoio con la colazione (si faccio colazione a letto, mbè?):«Tra quindici giorni me ne vado, ho trovato nuovo lavoro». L'eco delle sue parole ha rimbalzato per qualche minuto tra le pareti della stanza e nel mio cervello appena riavviato. Elaboro la tragica notizia mentre a fatica cerco di svegliarmi. Il risultato è che il mio umore, già solitamente pessimo di prima mattina, esplode come un vulcano. Inizio a eruttare parole di slealtà e di menefreghismo. Minaccio di non pagarle la buonuscita se non mi da il tempo di trovare un'altra persona. La mando via dalla stanza urlando. Prendo il telefono e chiamo il mio avvocato, al quale spiego concitatamente la situazione. Voglio denunciarla per abbandono del posto di lavoro, abbandono di disabile, omissione di soccorso, alto tradimento (non c'è il plotone d'esecuzione per questo reato?) o qualsiasi altra aggravante si possa inventare per l'occasione. L'avvocato spegne sul nascere il fuoco della mia voglia di giustizia o quasi:«Potrebbe andarsene anche oggi stesso senza alcun preavviso, praticamente ti sta facendo un favore a darti quindici giorni» e continua rincarando la dose «Anche se la denunciassi, i giudici danno sempre ragione al lavoratore in questi casi». Nulla da ridire. Il diritto del lavoratore è sacro. Ma le ragioni di un disabile non possono andare a farsi fottere. Non sto parlando solo di ragioni pratiche, ma anche e soprattutto di ragioni psicologiche. La ricerca di una persona a cui uno, volente o nolente, si deve affidare in tutto e per tutto, è un'operazione delicata. Va affrontata con i tempi giusti, o si rischia di mettere in casa una persona non adatta e, talvolta, anche pericolosa. Mi sorprende che non ci sia una legge che tutelI i disabili di fronte a casi del genere. Basterebbe una piccola clausola contrattuale che stabilisse un tempo di almeno due mesi per ricerca sostituzione adatta, in caso di prematura rottura del rapporto lavorativo. Purtroppo non siamo un paese civile. C'è da combattere per qualsiasi cosa. Per fortuna ho accumulato una certa esperienza in fatto di ricerca del personale. Ho delle domande chiave dalle cui risposte capisco chi ho davanti. Chiamo alcuni numeri che ho da parte e riesco a organizzare tre appuntamenti praticamente immediati. E immediatamente prendo buca. Al primo non si presenta nessuno. E' una signora con ottime referenze che inseguo da tempo, e che presumo continuerò a inseguire. La chiamo tutta la mattina, ma trovo la segreteria. Verso le tre del pomeriggio vedo una ragazza ucraina. Sono cinque anni che vive in Italia. Parla bene la nostra lingua, requisito fondamentale richiesto dal tipo di lavoro, e ha sempre prestato servizio dalla stessa donna anziana come badante. Ma che termine è 'badante'? Un cane si tiene a bada, un cavallo si tiene a bada. Un essere umano no. 'Prendersi cura' è il termine giusto. Ci si prende cura di una persona avanti con l'età. Badante, oltre che offensivo è anche un repellente modo di esprimersi. Si associa bene al nostro mondo burocratico. Preciso che non ho bisogno di una badante, ma di una governante che si occupi della casa, della cucina e che mi aiuti, una volta per notte a fare pipì. Nonostante viva in Italia da tanto, capisco che non sa cucinare (chissà cos'ha mangiato la vecchina negli ultimi anni). Ma il suo problema principale è che se si sveglia la notte poi non si addormenta più. Mi guarda come se aspettasse da me una soluzione al suo problema. Io ricambio con lo stesso sguardo e dico:«Il mio problema principale è che se non faccio pipì non mi risveglio più». Ci salutiamo. Mentre attendo l'arrivo del terzo pretendente (stavolta si tratta di un uomo), il telefono inizia a squillare in continuazione. Come per magia tutti sanno che cerco una governante. La cosa divertente è che raramente riesco a parlare con la persona che effettivamente cerca il lavoro. Chi telefona è sempre il tramite. Un'amica, la sorella, un parente. Di solito perchè il candidato non parla bene l'italiano o non ha esperienze lavorative. Il bello è che anche all'appuntamento si presentano con l'amica, la sorella e il parente che cercano in tutti i modi di non farlo parlare. Ho fatto colloqui di lavoro senza neanche sentire la voce della persona interessata. Suonano alla porta. E' Manuel, un ragazzo sud-americano. E qui c'è da fare una premessa: le donne sud-americane in casa sono incredibilmente brave. Cucinano bene, tengono casa pulita e ordinata e non si stancano mai. Gli uomini, per quanto riguarda la cucina non sanno neanche stendere una tovaglia a tavola, l'aspirapolvere è un mistero della tecnologia e, dopo una settimana di lavori domestici, sono pronti per il ricovero. Lungi da me qualsiasi pensiero razzista, questo è un dato di fatto dettato dall'esperienza. Tutti gli assistenti sud-americani che ho avuto sembravano fatti con lo stampino. Manuel è in Italia da cinque anni. Parla un italiano mediamente comprensibile e non ha il permesso di soggiorno. Cosa che già di per se basterebbe a metterlo fuori lista possibili aiutanti. Vado avanti lo stesso con l'intervista e scopro che ha fatto il badante (ci mancherebbe) per un'anziana signora. «E che cosa cucinavi per la signora?» domando immaginando già la risposta. «Una pasta, una minestrina, tutto» risponde ridendo. Lo ringrazio e lo lascio con la promessa che ci penserò su. E per due o tre minuti ci penso. Finchè non suonano di nuovo. L'ultimo appuntamento è con una signora lettone. Si chiama Nina e parla un italiano impeccabile, quasi privo di accento. E' in Italia da dieci anni e ha già lavorato con disabili. Ha il permesso di soggiorno. Risponde alle mie domande con l'arguzia e le movenze di una vecchia matrona romana. Mi sembra di sognare. Sa cucinare, sa prendersi cura della casa e di me, non ha problemi a svegliarsi la notte, mi chiede subito quanto dista il mercato più vicino. Più parla più acquista punti. Le mostro la casa e la sua stanza con bagno. Le piace. Anche lo stipendio le sta bene. Per me il posto è già suo, vorrei avere un contratto da farle firmare seduta stante. Torniamo in camera. Si siede e lancia un fendente che, in un attimo, disintegra la mia innocente euforia :«Il lavoro veramente servirebbe a mia sorella». La guardo ammutolito. E' la prima volta che mi trovo in una situazione del genere. L'unico pensiero che riesco a formulare mi esce in dialetto foggiano:«E purtm' a soreta!»...nuove influenze.     

sabato 5 aprile 2008

ASSISTENZA AEROPORTUALE Capitolo 4

L'estate scorsa sono stato in Germania per un'operazione. Dopo aver trovato una vantaggiosa offerta su internet, ho acquistato tre biglietti Roma- Amburgo con una compagnia di bandiera tedesca. Sono partito con il mio assistente Miky e Alessia, una mia cara amica italo-tedesca, che si è gentlmente offerta di accompagnarmi per farmi da interprete. Nell'atto di acquistare i biglietti ho fatto presente, come del resto faccio sempre, che uno dei passeggeri aveva bisogno di assistenza per salire sull'aereo. Non avevo scelto il momento migliore per volare. Erano giorni che il telegiornale apriva con le ultime notizie sulla situazione dell'aeroporto L. Da Vinci di Roma. A causa dei troppi viaggiatori e di vari sabotaggi ai sistemi di smistamento bagagli,  l'aeroporto era andato in tilt. Ritardi sulle partenze, file chilometriche ai check in, sistematica perdita o mancato imbarco del bagaglio, interminabili ore di attesa per la riconsegna agli arrivi. Come al solito facciamo la nostra bella figura di inefficienza, per essere educati, con il mondo intero. La mattina della partenza decido, in accordo con i miei compagni di viaggio, di muovermi da casa con largo anticipo. Tre ore prima dell'orario di decollo. Per non correre rischi, visto ciò che ci aspetta nell'inferno dantesco aeroportuale. Arriviamo in meno di mezz'ora. C'è il delirio. Entriamo e cerchiamo i banchi Lufthansa. La fila fa paura. Anche per fare ingresso nella zona check-in c'è fila. Per fortuna si avvicina un'inserviente munito di radio, che ci scorta fino al banco della businness class facendo spostare i poveri dannati in fila. Consegnamo i bagagli e la signorina mi fa attaccare sulla carrozzina un adesivo, con i dati del volo e la destinazione. Come quelli che mettono sulle valigie, visto che la sedia andrà a finire nella pancia dell'aereo. Ritiriamo le carte d'imbarco, passiamo il controllo e arriviamo al nostro "gate" in meno di venti minuti. Mai prima d'ora ero stato così veloce, infatti mancano più di due ore al decollo. Occupiamo due sedili dove appoggiamo le borse. Mi lancio subito alla scoperta dell'incantevole sbrilluccichio dei negozi del duty free, nella più totale accessibilità a parte la rallentante moquette. Dall'alcohol alle sigarette, dai profumi alle cravatte, dagli occhiali alle magliette delle squadre di calcio. Ne abbiamo per tutti i gusti. Si inizia sbeffeggiando ironicamente l'opulenza dei negozi e l'inutilità di ciò che vendono. Si finisce comprando, inebetiti dalle luci, dai colori e dalla convinzione che al duty free convenga. Non è vero. A parte le sigarette costa tutto uguale, se non di più. Cerco una maglietta da calcio per mio nipote, ma non hanno la taglia per bambini di dieci anni. Compro (si compro!) un paio d'occhiali da sole Puma e mi siedo, o meglio, prendo posto al bar-pizzeria-fast food per fare colazione. La seconda. Pizza di plastica, patatine di gomma e cornetti imbustati. Ordino un cappuccino, che mi sembra l'unica cosa commestibile. Alessia e Miky si avventano su una fetta di pizza, incuranti del pericolo. Finito lo spuntino, visitati tutti i negozietti, compriamo giornali e riviste passa tempo di quelle che si leggono solo nelle sale d'attesa e torniamo alla base. Poco lontano noto un altro tetraplegico in carrozzina insieme a una ragazza bionda. Dopo aver vivisezionato giornali e riviste arriva il momento dell'imbarco. L'altro disabile viaggia sul mio stesso volo. Lo vedo sparire dietro la hostess, accompagnato dalla ragazza e da un addetto all'assistenza. Mi avvicino alla porta d'imbarco costeggiando la fila dei passeggeri 'normali' e consegno le carte alla hostess che mi guarda interdetta: «Ma lei ha richiesto l'assistenza?». 
«In che senso scusi?» chiedo confuso.
«Al check in ha fatto presente di avere bisogno di assistenza?».
«Perchè non si vede?».
«Aspetti un secondo». Si volta stizzita e raggiunge una collega dietro il banco. Prende il telefono e parla per un minuto. Attacca e torna all'attacco: «Sa, siete in due sullo stesso volo. Ci vuole solo un po' di pazienza».
«Rischiamo di bloccare il terminal con questo evento» rispondo ironicamente. Lei incassa e senza degnarmi di uno sguardo, inizia le operazioni d'imbarco per gli altri passeggeri. Arriva l'addetto, toglie i freni alla carrozzina, acchiappa le manopole di spinta e parte, accompagnandosi con un sonoro:«Andiamo?». Superiamo una grande porta a vetri e arriviamo davanti a due rampe in discesa libera. Ripidissime. Contro ogni regola imparata sin'ora, e sono undici anni che studio da disabile, 'l'assistente' gira la carrozzina di 180 gradi e inizia a scendere come se impedisse a  un pesantissimo pianoforte di scivolare via. Faticando il doppio e facendomi venire un paio di contratture al collo. Come se non bastasse. Il modo corretto di affrontare una discesa è impennare la carrozzina sulle ruote grandi, e scendere lentamente e omogeneamente senza faticare più di tanto. Lo faccio notare all'assistente che mi spiega il motivo dell'anomalia, a parole sue:«Qualche giorno fa ce n'è cascato uno».
«Che cosa vuol dire 'ce n'è cascato uno'?» lo fulmino con lo sguardo. Non coglie e continua:
«Si, stava scendendo come dici te e gli è scappata la carrozzina. Ammazza che botto!» conclude ridacchiando. Lo fisso senza dire nulla. L'istinto è omicida però. 
«Così hanno deciso che dobbiamo scendere in questo modo, è più sicuro». E' così sicuro che, se il tipo scivola io mi faccio un'altra lesione midollare. Sbuchiamo davanti al veicolo che ci porterà all'aereo. Si tratta di un furgoncino con un ampia cabina passeggeri sopraelevata, a cui si accede mediante una pedana elettrica. Cabina che, una volta sotto l'aereo, sale come un ascensore fino al portellone. L'altro ragazzo è già sulla pedana insieme alla ragazza. Altri due addetti parlottano tra loro. Uno sta urlando: «Hai capito che quello è un pezzo di merda?» mi prende in consegna e mi carica sulla pedana continuando a sbraitare «Cambia i turni come vole. Lui al fresco e noi qui a morì de caldo, mortaccisua!». Si posiziona accanto a me e fa segno a Miky di salire. Ora siamo due disabili e tre cristiani su un sollevatore che di norma ne porta uno e uno. Infatti non si muove. Lui urla ancora, perforandomi un timpano. Scende e la pedana si anima, portandoci in cima tra sonori cigolii. All'interno della cabina ci sono delle rotaie dove agganciare le carrozzine per sicurezza, ma mancano i blocchi e le cinture di sicurezza. Metto i freni e mi aggrappo a Miky. Gli addetti continuano a parlottare fregandosene altamente. Almeno il cretino ha smesso di urlare. L'altro disabile ride divertito. Io darei fuoco al veicolo con tutti gli assistenti. Quantomeno avrebbero un motivo valido per urlare. Finalmente ci troviamo davanti al portellone dell'aereo. Un ponticello elettrico unisce la cabina del furgoncino all'aereo. Sembra l'abbordaggio di una nave di pirati disabili. Gli assistenti mi sistemano accanto una sedia stretta di metallo, con due piccole ruote di gomma dietro e una pedana per i piedi davanti. E' la sedia standard che si usa per salire a bordo e passare nel corridoio in mezzo ai sedili. Solo che in tutta Europa è munita di morbide imbottiture sullo schienale e sulla seduta, in Italia no. Ti becchi due belle lastre di metallo che solo a guardarle ti si apre una piaga da decubito. Mi trasferiscono sullo strumento di tortura, basculano leggermente sulle ruote posteriori e ci infiliamo nell'aeromobile. Arriviamo alla fila di posti che ci appartengono. Di solito mi faccio posizionare sul primo sedile. Quello accanto al corridoio. Per facilità di trasferimento, e anche perchè non mi piace volare. Meno vedo meglio sto.  Mi comunicano però, che secondo nuove normative, devo sedermi accanto al finestrino per non creare intralci in caso di emergenza. Ma se sto fermo e seduto come faccio a creare intralci? Vengo quindi trascinato, perchè oltretutto non è neanche un operazione semplice, nel posto di mia competenza. Miky finisce di sistemarmi. Sono alto e le gambe entrano a malapena nel posto di classe economica. Devo stare attento altrimenti mi buco le ginocchia. Guardo fuori dal finestrino e vedo i miei bagagli sulla pista, mentre li imbarcano. Non mi era mai successo. Finalmente posso controllare come li trattano. Male. Il bagaglio viene letteralmente lanciato sul tapis rouland di carico. Siamo evidentemente in ritardo. Quest'operazione dovrebbe essere già stata effettuata. Non è normale salire sull'aereo prima dei propri bagagli. La voce del comandante irrompe in filo diffusione negli altoparlanti, per il benvenuto e le notizie di rito. Parla in tedesco. Il discorso va avanti per dieci minuti buoni. Alessia ascolta interessata. La sua espressione non lascia presagire niente di buono. Il comandante ora parla in inglese, ma il discorso in questo caso dura due minuti. Guardo Alessia perplesso:«Ma cos'ha detto prima?».«E' incazzato nero», risponde lei «per colpa dei problemi con i bagagli il volo è in ritardo. Ha maledetto gli italiani e ha detto che farà di tutto in volo per recuperare il tempo perduto».
Maledico anch'io gli italiani, mentre la mia normale paura di volare si eleva al quadrato. Cerco di immaginare come uno possa "fare di tutto" per guadagnare tempo, con un aereo di linea pieno di passeggeri. Non mi risulta ci siano scorciatoie in cielo. Si deve andare da un punto a un altro punto in linea retta. Al massimo qualche viratina qua e là. Il volo procede tranquillamente fino all'inizio della discesa, dove capisco il significato di "fare di tutto". Invece di rallentare planando più o meno dolcemente, l'aereo continua a velocità sostenuta picchiando verso il basso. L'atterraggio dura un attimo. Il comandante arriva puntuale. Io riprendo colore. Nel giro di dieci minuti l'aereo si svuota e arriva l'assistenza germanica. Due ragazzoni biondissimi in divisa si avvicinano, uno di loro dice:«Scusi l'attesa, aiutiamo l'altro ragazzo e torniamo da lei». Resto di sasso.  Si sono scusati per l'attesa. L'educazione, quando manca per un po', sembra un sogno. Miky e Alessia si avviano verso l'uscita. Tornano gli assistenti. Con grande attenzione mi trasferiscono sulla sedia da corridoio (morbidamente imbottita) e scendiamo, un gradino alla volta, dalla scaletta dell'aereo. La mia carrozzina mi attende sulla pista, ai piedi della scala. Altro trasferimento e saliamo su un furgone blu. Uno dei ragazzi assicura la carrozzina a delle rotaie simili a quelle del furgoncino italiano, solo perfettamente funzionanti. Mi avvolge con una cintura di sicurezza e mi siede accanto. Ci depositano davanti a una grande vetrata, al di là della quale troviamo i tapis rouland della riconsegna bagagli. I due assistenti ci scortano  e ci lasciano di fronte alle nostre borse, che aspettano ordinatamente allineate. Usciamo dall'aeroporto in meno di mezz'ora dal momento dell'atterraggio. Proprio come succede in Italia.

venerdì 21 marzo 2008

ACCESSIBILITA' ZERO Capitolo 3

Il concetto di accessibilità in Italia non è ancora stato ben recepito. Tutti i locali e gli esercizi pubblici quali ristoranti, cinema, musei, ministeri, ospedali, asl, discoteche, biblioteche (e chi più ne ha più ne metta), devono essere accessibili. Ovvero, devono avere i requisiti necessari per rendere agevole l'ingresso e la deambulazione di un disabile munito di sedia a rotelle. Fino a qui più o meno ci siamo. A parte qualche eccezione, tutti si sono adeguati. Provvedendo a montare montascale, a costruire bagni adatti e a eliminare barriere architettoniche. Quello che ancora non è stato afferrato è che il disabile deve poter arrivare da solo, entrare da solo, girare da solo e infine uscire da solo dal posto visitato. Quindi strade, zone limitrofe e parcheggi devono favorirne andata e ritorno. Oltre naturalmente agli interni, che devono essere 'visitabili' nella loro interezza. E' una questione di integrazione sociale, di diritto civico. Ecco. Metti, allora, una mattinata al museo Vittoriano. Solo per arrivarci bisogna attraversare Piazza Venezia. I sampietrini che la pavimentano sono talmente disastrati, che sembra di percorrere una pista da motocross. La mia schiena, già ben disastrata di suo, ringrazia. Davanti al museo, un piccolo piazzale fa da parcheggio riservato. A chi non si sa. Evidentemente non a veicoli per disabili. E' occupato infatti da macchine blu. Parcheggiamo il furgone bloccandone una. Di colpo si materializza un vigile urbano. Si avvicina al finestrino e dice:«Mi faccia la cortesia, parcheggi sulle strisce vicino al gabbiotto che tra poco mi esce l'assessore». Lo guardo esterrefatto. «Non si preoccupi, la controllo io». Vorrei vedere, mi stai facendo infrangere la legge. Alla fine lo assecondiamo malvolentieri.  Miky mi aiuta a scendere e ci avviamo verso il museo. Un'impalcatura metallica, sulla destra rispetto all'entrata, sorregge quattro pedane che permettono l'arrampicata fino al portone d'ingresso. Il problema è che per raggiungerle, è necessario superare un 'gradone' di trentacinque centimetri di altezza. Dove naturalmente non c'è neanche l'ombra di una pedana. Mi sembra di vederli gli operai e l'ingegnere, tronfi e soddisfatti, farsi fotografare in posa di fronte all'opera di bene compiuta. Con in primo piano in basso il 'gradone', lasciato nella sua inaccessibile solitudine. Come chiedere a tali geni di compiere lo sforzo fisico e cerebrale di piazzare mezzo metro di rampa anche lì? Sarebbe stato indubbiamente troppo. Supero, con l'aiuto di Miky, l'ostacolo di travertino antico e mi arrampico sulle pedane che neanche il paraplegico più in forma riuscirebbe a conquistare da solo. In cima trovo un treppiede di legno con sopra il poster promozionale della prossima mostra (che originali..) a sbarrare il passaggio. Lo sbatto violentemente contro il muro (questo si riesco a farlo da solo!) e mi avvicino al bancone della biglietteria. Un inserviente si fionda a spostare il treppiede. Facciamo un biglietto ridotto in due. L'accompagnatore entra gratis e il disabile paga il ridotto o viceversa, non ho capito bene. Vengo indirizzato verso un orrendamente lento montascale, che mi porta al di là di una piccola scalinata. Dalla parte opposta un identico montascale su un'identica scalinata permette l'uscita alla fine del giro. «Cortesemente dovrebbe uscire da questa parte a fine mostra» dice l'inserviente «sa l'altro montascale è temporaneamente fuoriuso». 
«Temporaneamente quanto?» chiedo.
«Abbiamo già contattato il fornitore, qualche giorno credo».
«Guardi che vengo a controllare» stuzzico.
«Sicuramente lo troverà funzionante» ribatte fermo ma rilassato. Gli credo. Mi indica la strada per arrivare all'ascensore. Superiamo un'altra rampa rivestita di moquette, più ripida delle prime e piena di dossi. Entriamo e iniziamo a salire.  Miky è paonazzo e ha il fiatone. Io pregusto già gli ampi spazi aperti in cui potrò muovermi a mio piacimento, in mezzo a un estasi di colori e sensazioni d'altri tempi. L'ascensore ci vomita in mezzo alla stanza buia dove proiettano la vita dell'artista. Oscuriamo per un attimo la visuale di alcuni spettatori, che sono costretti a spostare le sedie per farci passare. Finalmente faccio il mio ingresso nella mostra vera e propria, trovandomi subito davanti a un grande corridoio in salita. Tutta la prima parte dell'esposizione è in salita. Sul lato sinistro si aprono due piccole stanze a cui si accede mediante rampette corte e ripidissime. In cima alla salita si entra nell'ampia sala principale del museo. Il primo luogo realmente accessibile di tutta la struttura. Mi godo l'agognata libertà. Posso girare a mio piacimento di opera in opera, con la leggiadria di un pattinatore sul ghiaccio. Mi sento bene. Mi sento uguale. Anzi, mi sento proprio fico con la mia super carrozzina. Finchè non decido di salire al secondo piano. Non c'è l'ascensore. Ci aspettano due lunghissime rampe che salgono costeggiando due lati del salone. Miky è di nuovo paonazzo. Dura poco però. Al ritorno scivola e gli sfuggono le maniglie della carrozzina. Parto in discesa come un proiettile. Riesco a fermarmi prima di investire un inserviente e schiantarmi contro una parete di cartongesso. Miky è bianco come un cadavere. Guarda l'inserviente in cagnesco:«Ma una minchia di ascensore no eh?». Torniamo verso l'entrata percorrendo il giro 'contromano'. Passiamo in mezzo a gruppi di visitatori che si aprono come le acque di fronte a Mosè. Un po' per timore reverenziale (oddio una carrozzina!), e un po' perchè non vogliono rimetterci un piede. Ripetiamo la scenetta iniziale nella stanza della proiezione e ci infiliamo in ascensore. Scendiamo lentamente lungo la rampa a dossi, per non correre rischi. Risalgo poi sul montascale che, altrettanto lentamente (sembra peggiorato), mi porta all'uscita. Altro che mostra, mi sembra di essere uscito da una puntata di giochi senza frontiere. Sono stanco. Arrivo davanti al furgone. Sul parabrezza, sotto a un tergicristallo trovo una multa per divieto di sosta. Il gabbiotto è desolatamente vuoto. 'La controllo io' è sparito nel nulla. Questa la paga l'assessore.                                                                                                                                  

mercoledì 19 marzo 2008

L'OTORINOLARINGOIATRA Capitolo 2

Qualche giorno fa mi si sono tappate le orecchie. Insieme, all'unisono. Neanche lo avessero pianificato a tavolino. La governante è riuscita a svegliarmi solo a forza di violenti scossoni. Ha ululato il mio nome per cinque minuti buoni. Pensava fossi morto. Era abituata a trovarmi già sveglio al suo arrivo in camera. Sono sicuro che il tappo alle orecchie sia una conseguenza del catarro accumulato grazie alla bronchite. So anche che mi tocca andare dall'otorinolaringoiatra per una sciacquata mediante siringone. Così, per avvantaggiarmi, inizio a mettere delle gocce di cerulisina. Una sostanza lubrificante e compattante che favorisce la pulizia. Come mi avevano insegnato gli otorini con cui avevo avuto a che fare in precedenza. Dopo due giorni di sordità semi totale, terribile sensazione, provo a contattare uno studio medico dove ero già stato. Niente da fare. Per la visita avrei dovuto aspettare tre giorni. Troppi. Per uno che lavora con le orecchie, non sentire è l'incubo peggiore. Figurarsi per me, che mi sono rimaste solo quelle. Decido allora di affidarmi alle sottovalutate pagine gialle, trovando una pagina gialla piena di numeri e annunci a lettere cubitali. C'è solo l'imbarazzo della scelta. Provo prima a chiamare gli studi più vicini a casa. Con scarso successo. Uno è al quarto piano senza ascensore. Impossibile con la sedia a rotelle. All'altro risponde una segreteria che sembra più quella di una casa privata che di uno studio medico. Alla fine  scelgo il vecchio metodo 'per ordine alfabetico'. A come Dr. Acquaviva. Il primo della lista. Chiamo e spiego al dottore la situazione. «Chiami questo numero» risponde lui «dica alla signorina di infilarla anche se non c'è posto, tanto si tratta di una cosa veloce». Era il numero di uno studio medico all'eur. Non troppo lontano da casa. Prendo appuntamento per le tre. Arrivo puntuale e parcheggio, o meglio il mio assistente parcheggia, di fianco a un cassonetto che occupa un posto riservato ai disabili. In effetti a guardarlo è proprio malandato. Ne ha quasi più diritto lui. L'ingresso dello studio è perfettamente accessibile a parte la doppia porta un po' scomoda. Mi fanno accomodare (...) nella sala d'aspetto. Asettica, mattonelle bianche a terra, muri bianchi con appese le solite stampe di vedute dai tetti delle case (ma le fanno apposta per gli studi medici?) e una sfilza di poltroncine finta pelle degne di una sala d'attesa aeroportuale. Inquietantemente vuota. Su una parete giganteggia una lastra di plastica trasparente con su scritte tutte le prestazioni e le visite ambulatoriali che si possono effettuare nello studio. Quattro colonne di specialità mediche. Quasi tutto. Inizio a preoccuparmi. Dopo una ventina di minuti la segretaria mi chiama ad alta voce, nonostante sia l'unico nella sala, e mi conduce nella stanza del dottore. Il posto non è grande. Attraversiamo un corridoio con alcune stanze chiuse e arriviamo in fondo. L'ultima porta si apre. «Salve dottore» saluto entrando. «Salve, prego le faccio spazio» risponde lui spostando una sedia. Racconto di nuovo brevemente il mio problema mentre lui, seduto dietro la scrivania, rovista dentro un cassetto. «Chi le ha dato il mio numero?» chiede continuando a ravanare. Rispondo sinceramente: «E' il primo nome sulle pagine gialle». «Ha trovato il migliore» conclude e si avvicina agli strumenti alla mia sinistra. Ora sono decisamente preoccupato. Si infila in testa la fascia di plastica rigida con la luce al centro e, mediante un conetto argentato mi guarda dentro l'orecchio. L'otorino è in realtà una sorta di speleologo, con tanto di faretto in testa. Alla scoperta dei cavernosi condotti uditivi, e di ciò che ci si trova all'interno. Riemerso dall'esplorazione dice: «In effetti sembra un po' sporco, facciamo un lavaggio». Agguanta il siringone metallico lo riempie d'acqua tiepida e facendosi tenere il fagiolo (piccola bacinella metallica) dal mio assistente, spara l'onda pulitrice. Che và a finire ovunque tranne che nel fagiolo. Per poi immergersi di nuovo, stavolta munito di pinzette e attrezzini vari. Quest'operazione si ripete per cinque o sei volte, tra commenti poco rassicuranti: «L'acqua esce pulita, non è un buon segno. Il cerume è finito». «Non capisco, sembra pelle morta». «E' tutto infiammato, c'è un otite». Continuo a non sentire niente. All'improvviso si fulmina la lampadina del faretto. Il dottore ricomincia a rovistare nel cassetto della scrivania, da dove escono una serie di mini lampadine di diversa forma. Ne prova un paio, manipolando il voltaggio del trasformatore senza successo. Esce dalla stanza e chiede a un altro medico, probabilmente il titolare dello studio, se ci sono lampadine. Altro insuccesso. Alla fine spedisce una delle segretarie all'elettronica di zona. Intanto continua l'operazione con l'aiuto di un aggeggino autoilluminante da visita a domicilio. Continua a spruzzare acqua. Continuo a non sentire niente. Il dottore inizia a sudare. Mi domando se riacquisterò mai l'udito. Rientra la segretaria con le lampadine nuove. Funzionano. L'oto-speleologo si tuffa di nuovo nell'antro misterioso. Al ventesimo lavaggio esclama: «Ecco ci siamo!». Prende una pinza e all'improvviso il mio orecchio si stappa. Sento come non ho mai sentito prima d'ora. Se ci fossero delle formiche, ne sentirei lo zampettio. Mi volto verso il dottore che mi mostra con soddisfazione, come fosse un trofeo, quello che è uscito dall'orecchio. Una palletta di pelle morta e non so cos'altro della grandezza di un nocciolo di prugna. Un ovetto alieno che si sarebbe impadronito a breve del mio cervello, e avrebbe infestato le orecchie di tutto il genere umano. Doveva essere la conseguenza di un otite curata male. «E ora diamo un'occhiata all'altro orecchio». L'espressione è di chi sta salendo sul patibolo. Comunque riesce a svelare anche i misteri della nuova caverna uditiva. Esorcizzandola, dopo ripetuti lavaggi, dalla creatura aliena. «Sembrava cemento» è l'ultimo commento del dottore. La visita 'tanto è una cosa veloce' si è trasformata in un combattimento di un'ora. Mi congeda con una cura a base di gocce antibiotiche da fare per una settimana. E una prevenzione da fare una volta a settimana per il resto della vita. In modo che il problema non si ripresenti. «Arrivederci dottore» saluto uscendo. «Arrivederci. Adesso devo farmi una doccia». E bravo il dottor Acquaviva. Nonostante le difficoltà, la mia perenne mancanza di fiducia verso i medici e le sue battute ironiche, ha vinto e convinto. Me ne torno a casa bagnato come un pulcino (la doccia l'ha fatta a me!) ma felice. Grazie dottò.   Te tocca pure la prossima visita, se mi ritrovo il numero...Avventuroso.